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La frontiera aziendale

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i nuovi contratti

La frontiera aziendale

Sarebbe davvero poco comprensibile se il sindacato non cogliesse l'apertura di fiducia emersa chiara ieri dal podio dell'auditorium dell'Expo per una riforma condivisa della contrattazione.

Il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi ha detto che tocca alle parti sociali definire insieme l’articolazione dell’assetto contrattuale dando attuazione alle importanti innovazioni istituite con gli accordi interconfederali sulle relazioni industriali. Sarebbe una resa affidare tutto alla legge mentre è decisivo creare, per via contrattuale, forme di aggancio dei salari alla produttività aziendale.

La Cgil ha già affidato a un fuoco di sbarramento “di scuola” la sua posizione negoziale attestata sul no a prescindere. Non si tagliano i salari, ha detto in sostanza Susanna Camusso a caldo. Ma la questione è semmai come aumentarli, i salari. Cisl e Uil sono sembrate più disponibili al confronto.

La partita è delicata e strategica: nessuno svuotamento del contratto nazionale che manterrebbe il ruolo cornice di definizione delle modalità e delle regole con cui distribuire il salario di produttività. Non è punto di partenza da poco visto che la legge già oggi consente ampi margini di derogabilità ai contratti nazionali e può spingere verso l’alternativa secca tra intese nazionali e accordi aziendali.

È importante il riconoscimento ai contratti nazionali in un momento in cui la deflazione li ha quasi svuotati poiché alcune federazioni d’imprese stanno chiedendo ai lavoratori la restituzione di parte degli aumenti in un primo tempo calibrati su attese di inflazione crescente.

Come dare corpo ai nuovi contratti aziendali è la sfida. Nemmeno alle imprese va a genio il free riding selvaggio sulle buste paga. Soprattutto se sono piccole e medie e un contratto aziendale magari non l’hanno nemmeno mai stipulato. Ma all’intero sistema industriale serve un quadro di riferimento certo nel governo della variabile costo del lavoro e soprattutto servono nuovi criteri razionali per agganciarlo a parametri esigibili di produttività e redditività dell’azienda e del lavoro. È del resto un obiettivo storico, configurato fin dall’intesa del ’93 ma applicato in modo solo parziale. I cicli dell’economia finiscono per triturare spesso gli sforzi creativi delle parti sociali costringendoli a gestire emergenze successive soprattutto in un periodo di recessione così violenta come è stata quella che, sembra, ci stiamo lasciando alle spalle.

Ora su contrattazione e welfare si aprono due importanti campi d’azione per i corpi sociali intermedi. L’opportunità da cogliere è declinare secondo criteri di nuova modernità un ruolo che l’Italia riconosce e conosce dai tempi di Don Sturzo e Togliatti.

Non è vero che una società “disintermediata” è migliore. Non è più efficiente e non è più competitiva. È solo più a rischio. Rischio di free riding nei comportamenti collettivi e individuali, rischio di fughe darwiniane che imbarbariscono i rapporti tra persone senza produrre un miglioramento per la collettività.

L’Italia illustrata ieri da Squinzi, è sì un Paese rapido e reattivo che deve puntare sul valore dell’impresa e dell’innovazione, sull’apertura al mondo, su un senso forte dell’appartenenza europea, sul potenziamento del proprio capitale umano, ma non è la patria del “tutti contro tutti” dove ognuno pensa a sé.

Non è vero – come ha sostenuto il presidente degli industriali – che l’epoca dell’associazionismo e dei corpi intermedi è al tramonto. Semmai è più corretto pensare che anche le rappresentanze sociali hanno bisogno di riforme e di innovazione, senza darle per spacciate. Del resto viviamo un’epoca di svolta. E vale per tutti.

È una banalizzazione quella della “disintermediazione sociale” come ideologia; è un po’ il corollario ipersemplificato, ad uso di una comunicazione veloce e superficiale, dell’idea della rottamazione in politica.

L’associazionismo è il sistema nervoso dell’Italia e spesso ha svolto funzioni di supplenza quando la politica è stata impresentabile e del tutto inefficiente.

Pensare di cambiare il Paese solo perché si azzerano le tante coscienze civili e le identità sociali è una scorciatoia che mal si adatta al mosaico di interessi italiano. La bussola deve essere il bene comune, il progresso del Paese.

Certo, i corporativismi sono da abbattere, le sacche di interessi parassitari da estirpare, ma le associazioni più rappresentative sono utili a governare gli interessi collettivi. E aiutano a dare la direzione strategica del Paese: soprattutto perché quando remano, remano tutti nella stressa direzione. Invece quando ognuno fa per sé la barca gira su se stessa e magari si ribalta.

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