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Cina, il boom del credito fa sempre più paura

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GLI SQUILIBRI DI PECHINO

Cina, il boom del credito fa sempre più paura

Due dati sull’economia cinese sembrano trovare ampio consenso: il primo è che la fase di rallentamento è finita e la crescita è in ripresa; il secondo è che non va tutto bene sul piano finanziario. Dove non c’è accordo, è su ciò che accadrà da qui in avanti.

La buona notizia è che la domanda interna continua a crescere. Lo scorso marzo le vendite di automobili sono cresciute di quasi il 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E nel primo trimestre di quest’anno, la spesa al dettaglio è aumentata in poco tempo del 10% annuo.

“L’incremento degli investimenti, sia immobiliari che industriali, è dovuto a una forte espansione del credito”

 

L’incremento più straordinario, però, riguarda gli investimenti. Dopo il crollo del 2015, quelli nel settore immobiliare hanno ripreso a crescere, mentre quelli industriali, soprattutto delle aziende statali, hanno registrato un netto recupero.

Alla base di questa inversione di rotta c’è una forte espansione del credito dovuta al fatto che le autorità, preoccupate per l’eccessivo rallentamento precedente, hanno sollecitato le banche a erogare prestiti. La crescita del credito è aumentata a un ritmo del 13% annuo nel quarto trimestre del 2015 e di nuovo nel primo trimestre di quest’anno – quindi a un tasso di crescita doppio rispetto a quello annuo del Pil. Dallo scoppio della crisi finanziaria nel settembre del 2008, la Cina ha registrato la crescita del credito più rapida a livello mondiale. È difficile trovare un boom del credito di questa entità nella storia.

La cattiva notizia, come ci ricordano gli economisti Moritz Schularick e Alan Taylor, è che i boom del credito raramente vanno a buon fine.

Quello cinese sta finanziando gli investimenti nei settori dell’acciaio e immobiliare, già gravati da un eccesso di capacità produttiva. Le società che contraggono prestiti sono proprio quelle meno in grado di rimborsarli.

Il Fondo Monetario Internazionale, che su tali questioni tende ad assumere un atteggiamento conservatore (non da ultimo per evitare di inimicarsi governi potenti), stima che il 15% dei prestiti cinesi a società non finanziarie è a rischio. Poiché il debito delle società non finanziarie è pari al 150% del Pil, il valore contabile dei prestiti inesigibili rischia di rappresentare un quarto del reddito nazionale. Si potrebbero svendere gli appartamenti vuoti a una frazione del loro costo di realizzazione, oppure svendere laminatoi ad altri paesi, o come rottami. Ma dove si concentrano i prestiti a rischio – nei settori dell’acciaio, minerario e immobiliare – suggerisce che le perdite saranno cospicue.

Questo spiega perché la soluzione apparentemente indolore della capitalizzazione del debito non sarà affatto indolore. Certo, le sofferenze possono essere acquistate da società di gestione patrimoniale che le confezionano e vendono ad altri investitori. Ma pagando il valore contabile pieno per tali prestiti, i gestori patrimoniali subiranno delle perdite, e al governo toccherà pagare il conto. Se invece pagheranno solo il valore di mercato, saranno le banche a subire delle perdite, e il governo si troverà a dover risanare il loro bilancio.

Da ciò derivano tre opzioni, tutte poco invitanti. Nel primo caso, le autorità possono emettere obbligazioni per ricapitalizzare le banche. Così facendo, riuscirebbero a trasformare il problema del debito societario in un problema di debito pubblico, facendo ricadere l’onere finanziario sui contribuenti futuri, minando la fiducia dei consumatori e quella nelle finanze pubbliche. Il debito pubblico in Cina è ancora basso, ma può aumentare a dismisura quando scoppia una crisi bancaria.

In alternativa, la banca centrale potrebbe finanziare il risanamento fornendo credito. Se, tuttavia, le autorità hanno adottato questo approccio nel 1999, l’ultima volta che si sono trovate a gestire un grave problema di sofferenze, stampare moneta non è compatibile con l’altro obiettivo dichiarato dalla politica: un tasso di cambio stabile. Lo scorso agosto abbiamo visto come gli investitori possano precipitare nel panico quando il tasso di cambio del renminbi varia all’improvviso. Il deprezzamento della moneta rischia non soltanto di accelerare una spirale destabilizzante di fuga di capitali, ma anche di destabilizzare le banche.

L’ultima opzione è quella d’immaginare che il problema dei prestiti inesigibili si risolverà da sé. Le banche sarebbero incoraggiate a rendere “sempreverdi” i loro prestiti, ovvero a rinnovarli quando il rimborso diventa esigibile. La fantasia che le banche siano ben capitalizzate rimarrebbe in piedi, mentre i debitori che hanno bisogno di essere liquidati o riorganizzati resterebbero in vita grazie ai finanziamenti bancari.

Il risultato suonerà familiare agli aficionado della crisi bancaria del Giappone: banche zombie che erogano prestiti a imprese zombie, che soffocano la crescita delle imprese sane.

Finanziare la ricapitalizzazione delle banche attraverso l’emissione di titoli è probabilmente l’opzione meno dannosa, ma questo non significa che sarà indolore, e neppure che vi sia alcuna garanzia che i politici cinesi la sceglieranno. Se non lo faranno, però, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche.

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