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Quindici anni di politiche procicliche (e di guai)

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L'Analisi|L’INTERVENTO

Quindici anni di politiche procicliche (e di guai)

Al Vertice G7 di Ise-Shima, in Giappone, una delle preoccupazioni più grandi è stata la fragilità dell’economia mondiale. Invece di concentrarsi sulle guerre valutarie, i leader delle più importanti economie sviluppate avrebbero dovuto parlare di politiche di bilancio che in questo momento sarebbero uno strumento molto più efficace per rilanciare l’attività economica rispetto alle politiche monetarie. Dopotutto oggi, a differenza di periodi normali, gli effetti delle politiche di bilancio non verrebbero limitati da tassi di interesse troppo alti, da una domanda privata inadeguata, da limitazioni eccessive di capacità e da un’inflazione troppo alta.

Gli economisti scartano le politiche di bilancio perché sarebbero «condizionate dalla politica», ma non è una buona ragione per rinunciarvi. Anzi, se il processo politico mette in atto politiche di bilancio problematiche, come si sta verificando al momento, gli economisti avrebbero ancora più ragioni di gridare la loro preoccupazione.

Il periodo di massimo splendore delle politiche di bilancio attiviste è stato cinquanta anni fa. La maggior parte dei Paesi avanzati perseguiva un modello anticiclico, limitando la spesa e aumentando le tasse nei periodi di espansione economica, e adottando politiche di stimolo durante le recessioni. Il motto «siamo tutti keynesiani, adesso», attribuito a Milton Friedman nel 1965 e a Richard Nixon nel 1971, rendeva perfettamente quello zeitgeist economico.
Ma dopo il 2000, qualcuno ha cominciato a seguire politiche di bilancio procicliche. Quando l’economia era in espansione, partiva lo stimolo di bilancio, facendo così aumentare il boom. Quando l’economia attraversava una fase di contrazione, veniva applicato un regime di austerità, esacerbando la recessione.
Fra chi adottò misure procicliche, ci furono alcuni politici americani. All’inizio di questo secolo, il presidente George W. Bush dilapidò le grosse eccedenze di bilancio che aveva ereditato da Bill Clinton, adottando grossi tagli fiscali e rapidi aumenti della spesa, persino tra il 2003 e il 2007, quando l’economia aveva toccato il momento di massima espansione. Bush venne aiutato e incoraggiato dal presidente della Fed Alan Greenspan, che stranamente considerava le eccedenze come una minaccia. Fu in quel periodo che il vicepresidente Dick Cheney dichiarò pubblicamente che l’ex-presidente Ronald Reagan aveva dimostrato che «i deficit non contano».

Gravati dal debito, i leader americani non se la sentirono di dare quello stimolo di bilancio di cui ci sarebbe stato un disperato bisogno quando la grande recessione colpì nel 2007. I Democratici capirono che era necessario, ma i Repubblicani decisero, nel momento più sbagliato, che i deficit in fin dei conti erano da evitare.

A gennaio 2009, quando l’economia stava crollando, i Repubblicani votarono contro la manovra di stimolo di bilancio del presidente Barack Obama. Fortunatamente, la manovra venne varata ugualmente, contribuendo a invertire la caduta libera. Ma quando nel 2010 i Repubblicani conquistarono la Camera dei Rappresentanti, riuscirono a bloccare altri tentativi di Obama di stimolare l’economia ancora debole.

Poi c’è la Grecia, il Paese simbolo della virata post-millennio verso politiche di bilancio procicliche. Come all’epoca di Bush, tra il 2003 e il 2008, la Grecia aveva un deficit di bilancio eccessivo, mentre l’economia era in fase di espansione. Poi, nel 2010, il Paese piegato dal default, ha ceduto ai suoi creditori europei e adottato un severo regime di austerità che ha esacerbato la contrazione economica. Di conseguenza, anziché riportare il Paese a un debito sostenibile, la politica ha fatto aumentare rapidamente il rapporto debito/Pil.
I Paesi europei, in generale, basano i loro piani di bilancio su previsioni ufficiali ingiustificatamente troppo ottimistiche che li possono spingere verso politiche procicliche. Prima del 2008, tutti i membri dell’eurozona, non solo la Grecia, avevano “inaspettatamente” superato il limite sul disavanzo del 3% del Pil e dopo il 2008, si è verificata una contrazione di bilancio prociclica, non solo in Grecia, ma anche in Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna, che ha portato a un crollo del reddito e a un aumento del rapporto debito/Pil.
E, ça va sans dire, il primo sostenitore dell’austerity è la Germania. Al G20 dell’aprile 2009, a Londra, i tedeschi avevano accettato con riluttanza che Usa, Cina e altri importanti Paesi aumentassero la domanda per contribuire a far uscire il mondo dalla recessione globale. Ma quando è scoppiata la crisi greca alla fine di quell’anno, i tedeschi sono tornati al dogma della rettitudine di bilancio.

Sulle prime, l’Fmi ha assecondato la teoria dei creditori della Grecia secondo i quali l’austerity avrebbe funzionato. Ma nel gennaio 2013, il capo economista dell’Fmi di allora, Olivier Blanchard, pubblicò un rapporto in cui concludeva che i moltiplicatori fiscali erano molto più alti di quello che l’Fmi pensava che fossero e dunque che il programma di austerità nei Paesi in crisi della periferia dell’eurozona poteva essere stato eccessivo. Oggi, il direttore dell’Fmi Christine Lagarde ammette che per raggiungere un rapporto debito/Pil sostenibile, la Grecia ha bisogno di un maggiore alleggerimento del debito, non di tetti sulle eccedenze del 3,5% del Pil.

Anche il Giappone, il Paese che ha ospitato il recente G7, ha commesso degli errori nelle politiche di bilancio. Nell’aprile 2014, nonostante l’aggressivo allentamento monetario adottato dalla Banca del Giappone per rilanciare la crescita economica, il premier Shinzo Abe ha varato un piano di aumento dell’imposta sui consumi dal 5 all’8%. E come avevano previsto in tanti, il Paese è ricaduto nella recessione.

Presto Shinzo Abe dovrà decidere se aumentare di nuovo l’imposta sui consumi, portandola al 10%. Se le autorità giapponesi hanno ragione di preoccuparsi del grande debito nazionale, i tassi di interesse quasi a zero dimostrano che il problema oggi non è la credibilità. Quello di cui ha bisogno il Giappone è un’economia più forte, il che fa capire chiaramente che il Giappone non dovrebbe adottare un altro grosso aumento nell’imposta sui consumi, ma potrebbe invece seguire un piano che prevede tanti piccoli aumenti annui, in un arco ventennale.

“Alcuni paesi in via di sviluppo hanno approfittato degli anni del boom per avere eccedenze di bilancio, restituire il debito e accantonare riserve”

 

A dire il vero, dal 2000 ci sono esempi di Paesi che hanno adottato politiche di bilancio anticicliche a loro vantaggio. Alcuni Paesi in via di sviluppo, tra i quali il Cile, il Botswana, l’Indonesia, la Malesia e la Corea del Sud, hanno approfittato degli anni del boom per avere eccedenze di bilancio, restituire il debito e accantonare riserve. E così quando è scoppiata la crisi del 2008-2009 hanno avuto un margine di manovra sufficiente per allentare quelle politiche.
Purtroppo, i Paesi che negli ultimi dieci anni sono sfuggiti alla prociclicalità, hanno registrato un passo indietro. La Thailandia per esempio, o il Brasile, che non è riuscito a sfruttare il nuovo boom delle commodities (le materie prime) del 2010-2011 per eliminare il deficit di bilancio, e ha portato il Paese nel caos in cui versa attualmente.

I politici di tutto il mondo farebbero bene a riprendere in mano i manuali di introduzione alla macroeconomia e rileggersi il capitolo sulle politiche di bilancio.
(Traduzione di Francesca Novajra)
Jeffrey Frankel insegna Formazione e crescita del capitale alla Harvard University.
Copyright: Project Syndicate, 2016

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