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Anche la processione è videosorvegliata nella roccaforte della ’ndrangheta

Gli inni alla Vergine dei confratelli, i cantici delle donne che camminano in ginocchio battendosi il petto, il fragore dei portantini che corrono nella navata centrale del Santuario di Polsi e le centina di migliaia di fedeli che fino a domani accorreranno per la processione che conclude la Festa aspromontana della Madonna della Montagna saranno, per la prima volta, registrati e consegnati alle Forze dell’ordine. La novità è annunciata al Sole-24 Ore da Francesco Oliva, Vescovo di Locri-Gerace (si veda intervista). In una Festa dove, come conferma anche il Vescovo, è difficilissimo controllare tutto, a partire dal pedigree dei portantini e dalle origini delle offerte, senza contare i summit di ’ndrangheta che si ripetono fuori dai sacri confini religiosi, queste novità accendono riflettori potenti su un evento che ha sempre mischiato sacro e profano. Mai come quest’anno.

Don Pino Strangio, parroco di San Luca, vicario foraneo della Diocesi di Locri-Gerace ma, soprattutto, ininterrottamente Rettore del Santuario dal 1998, fa i conti con un’accusa gravissima: far parte di un’associazione segreta, con l’aggravante di favorire la ’ndrangheta. Il Rettore di uno dei santuari più venerati del Sud, farebbe parte di un’associazione segreta in grado di interferire sulle amministrazioni pubbliche, influenzandone scelte e indirizzi.

Questo è quanto sul capo gli ha fatto piovere l’11 maggio 2016 l’indagine Fata Morgana condotta dalla Procura di Reggio Calabria (pm Rosaria Ferracane, Giuseppe Lombardo, Luca Miceli, Stefano Musolino e delega alla Gdf del colonnello Alessandro Barbera).

Un avviso di garanzia è a protezione dell’indagato ed è giusto, per don Pino Strangio, ricordare che attende «con fiducia quello che farà la giustizia, poi vedremo il da farsi». Non nega di aver conosciuto Paolo Romeo, secondo l’accusa a capo di una cupola di ’ndrangheta riservata e invisibile mentre del coindagato Antonio Marra si limita a ricordare che era il suo avvocato. I due, hanno documentato gli investigatori, si sarebbero persino sobbarcati nel 2014 un viaggio tortuoso pur di incontrarlo.

«Che si trattasse di un incontro irrinunciabile – scrive a pagina 308 il Gip Barbara Bennato aderendo all’interpretazione della Procura – appare dimostrato dal fatto che i due, partiti da Gallico e trovatisi nell’impossibilità, per le abbondanti nevicate, di attraversare il valico di Montalto, a quasi 2000 metri di altitudine, fossero ridiscesi dall’Aspromonte sino al mare, per imboccare la Ss 106 e raggiungere, per una strada molto più lunga e impervia, la località Polsi.

L’incontro e la caparbietà con la quale gli indagati lo avevano perseguito e realizzato appaiono per un verso sintomatici di quella “fratellanza” fin qui predicata e per altro legittimano l’illazione che l’abboccamento, tenutosi in luogo riservato non si fosse esaurito in una mera visita di cortesia, piuttosto e verosimilmente afferendo ai plurimi interessi, anche di tipo imprenditoriale, beneficianti di contribuzioni pubbliche di cui il sacerdote è portatore».

Questo capo d’accusa non ha tolto né il ruolo né lo stato d’animo a don Pino Strangio, che sul suo profilo Facebook si presenta come libero professionista, con una foto in cui campeggia con Karol Wojtyla e una sfilza di amici con molti politici, professionisti e giornalisti in primo piano. Il suo motto del resto, rispecchia la sua serenità: «Calabria, terra bellissima, illuminata e riscaldata dal Sole, calpestata da chi vive il male come fine del suo esistere».

Agli atti della Procura ci sono anche alcune conversazioni nelle quali, proprio con Marra, parla di Polsi che, scrive testualmente il Gip, è «notoriamente luogo di svolgimento di summit di ’ndrangheta».

Già, anziché splendere per il solo pellegrinaggio giubilare, alla quale il vescovo di Locri-Gerace Francesco Oliva ha dedicato quest’anno una lettera ricca di spunti di straordinaria riflessione, Polsi da decenni è ricordata anche per quei summit nei quali le famiglie di ’ndrangheta nominano il capocrimine, vale a dire colui il quale è il sacro custode delle tavole mafiose ed è tenuto a farle rispettare insieme alle loro leggi criminali di unitarietà, vita e morte.

Non a caso, tra le tante fotografie che l’indagine Crimine/Infinito ha scattato il 13 luglio 2010 sull’asse Reggio Calabria-Milano, c’è anche quella in cui l’ultimo “capocrimine” svelato, l’ultraottantenne agricoltore di Rosarno Mico Oppedisano, per risolvere la questione dell’apertura in Piemonte di un “locale” (vale a dire una cellula di ’ndrangheta strutturata con almeno 49 affiliati) invita il suo interlocutore a recarsi a Polsi il 1° settembre 2009 per trovare un accordo.

Nonostante le indagini, che datano nei decenni, Polsi continua a stimolare gli istinti appetiti ancestrali dell’ala militare della ’ndrangheta, quello zoccolo duro che affonda sul terreno del 416 bis – forza di intimidazione del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la
gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di
autorizzazioni, appalti e servizi pubblici – sul quale svetta quella cupola invisibile e riservata che la Procura di Reggio Calabria sta svelando con l’indagine Mammasantissima di luglio.

Che Polsi continui a battere nel cuore delle cosche lo si capisce da alcune conversazioni del 2013, e dunque successive all’indagine Crimine/Infinito del 2010, nelle mani degli inquirenti, che le stanno attentamente riscontrando. Gli sviluppi investigativi diranno se Oppedisano è stato sostituito nel rispetto (o meno) dell’alternanza tra fascia joinica e fascia tirrenica nel ruolo di “capocrimine” se, come accade del resto per Cosa nostra in cui Totò Riina è ancora formalmente il capo, l’ex agricoltore sia ancora il custode di una ’ndrangheta mai così ancestrale e al tempo stesso così evoluta o se, infine, la regia mafiosa abbia deciso di riformare la figura con un profilo al momento sconosciuto.

r.galullo@ilsole24ore.com

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