Non so se quando questo articolo sarà uscito la vicenda Raggi si sarà nel frattempo arricchita di qualche nuovo capitolo, dopo tre mesi di montagne russe: l'ultima notizia è la mancata presenza a un incontro in Vaticano. E tuttavia non è forse troppo presto per parlarne, perché quello andato in scena a Roma non è un giallo di cui attendiamo con ansia il finale, ma semmai un documentario sulla politica in Italia.
Un documentario che, comunque vadano a finire le cose, lascerà il segno. Che cosa ci ha mostrato il documentario sui prime tre mesi del governo-Raggi? La prima cosa, ovvia per molti ma non per tutti, è che alcuni aspetti e meccanismi della politica sono simili in tutti i partiti, vecchi e nuovi, (presunti) puri e (altrettanto presunti) impuri. In tutti i partiti esistono correnti, cordate, faide interne, lotte di potere, ambizioni personali. Questa è una cosa che viene spesso moralisticamente deprecata, ma ha una precisa spiegazione sociologica: la maggior parte dei nostri politici, anche quando sono muniti di nobili ideali, sono impegnati in una vera e propria carriera, con l’aggravante che per molti di essi si tratta dell’unica carriera possibile. Provate a controllare quanti politici, anche ai livelli più alti, hanno iniziato percorsi universitari senza riuscire a portarli a termine, o quanti politici sono privi di qualsiasi robusta esperienza professionale, e capirete perché, per andare avanti, sono costretti a organizzarsi in tribù che si combattono a vicenda, spesso per interposta persona (ad esempio “spingendo” gli amici e cercando di bloccare i meno amici). Ciò vale, in particolare, per gli spesso lodati e adulati giovani politici: è strano che non ci si renda conto che chiunque sia giovane e abbia un minimo di esperienza politica è per ciò stesso, automaticamente, qualcuno che non sa fare altro che politica, e quindi alla politica e ai suoi meccanismi è necessariamente sottomesso (subordinato). Per essere veramente libero, un politico dovrebbe essere molto bravo in un altro campo, e avere sempre la possibilità di dire: cari signori, io vi mollo, e non rimpiangerò mai la vita che ho fatto con voi. Quanti degli attuali politici, giovani e vecchi, sono in questa condizione?
È chiaro che, se è un bene che un politico sia (relativamente) libero, si dovrebbe avere molto riguardo per i cosiddetti tecnici, o esperti, o esterni “prestati alla politica”. Questo vale, in particolare, per quelle posizioni politiche o amministrative, nelle quali non bastano onestà personale e chiarezza di indirizzo politico, ma occorre conoscere molto nel dettaglio, e possibilmente dall’interno, una qualche “macchina” specifica, come può essere la sanità pubblica, la burocrazia di un ente locale, un’azienda municipalizzata.
La necessità di avvalersi di persone dotate di elevate competenze e di grande esperienza, tuttavia, entra in contraddizione con due capisaldi dell’ideologia Cinque Stelle: la diffidenza per tecnici ed esperti, la mistica dei bassi stipendi. Come la maggior parte dei movimenti populisti, il Movimento Cinque Stelle non ha in particolare simpatia tecnici ed esperti, e tende a digerirli solo se aderiscono a qualche fissazione del movimento stesso. È successo a Torino, dove la neo-sindaca Chiara Appendino ha affidato l’assessorato all’Ambiente a una esperta bipartisan, di convinzioni vegetariane. E si è ripetuto a Roma, dove per il posto di assessore al Bilancio è (per meno di 24 ore) comparso il nome di un giudice di credenze complottiste in materia finanziaria. Ma il punto più spinoso è quello degli stipendi: se non si è disposti ad adeguarli al valore (non importa se effettivo o presunto) della persona che si cerca di ingaggiare, è difficile ottenerne la disponibilità a “entrare in politica”.
Su entrambi i punti, volontà di ingaggiare esperti e disponibilità a retribuirli adeguatamente, la neo-sindaca Virginia Raggi ha mostrato molta più maturità di quanti, politici e militanti di base, le hanno remato contro. Questo vale per diverse nomine, alcune riuscite altre andate in fumo per l’invadenza dei politici del Movimento Cinque Stelle, ma vale più che mai per la figura più contestata, quella Paola Muraro che doveva occuparsi di rifiuti, sapeva di essere indagata, ne aveva informato il sindaco Virginia Raggi, ma aveva taciuto in pubblico.
Mi sono spesso chiesto anch’io perché, pur sapendo che la Muraro era indagata, la Raggi abbia insistito per tenerla al suo posto di assessore all’Ambiente fino a che non divenissero note le “carte” che l’accusano. E l’unica spiegazione che mi ero dato era questa: forse la Raggi ha stima della Muraro e pensa che, per le sue competenze e la sua esperienza, sia l’unica persona di sua fiducia in grado di sbrogliare la matassa più grande di Roma, ovvero la indecorosa situazione della raccolta rifiuti. Di questa ingenua congettura ho avuto conferma tre giorni fa, quando sul Fatto Quotidiano è uscito il testo di una conversazione telefonica di Virginia Raggi con Luigi Di Maio, aspirante premier dei Cinque Stelle. La frase chiave è questa: «Datemi qualcuno, Luigi [Di Maio], siamo senza Ama [Azienda Municipale Ambiente] e senza assessore. Io un’altra così non la trovo. O mi dite cosa fare o andiamo a casa... perché non lo so. Sui rifiuti non so che fare». E poco più avanti: «Così noi andiamo a casa. [Paola Muraro] è l’unica che sa come funzionano queste cose».
Queste parole non sono dichiarazioni alla stampa. Sono frammenti di una conversazione privata carpita da un giornalista. Piacciano o meno, non abbiamo motivo di ritenerle insincere. Esse non giustificano l’errore (politico) di aver nascosto che una assessora era indagata, ma spiegano l’ostinazione con cui, ancora oggi, Virginia Raggi difende Paola Muraro. Evidentemente la neo-sindaca di Roma ritiene che quello della raccolta rifiuti sia il banco di prova fondamentale della sua giunta, e pensa che Paola Muraro sia la persona giusta al posto giusto.
Veniamo così al terzo insegnamento del documentario sul trimestre-Raggi, ovvero i rapporti fra magistratura e politica. Anche su questo punto la giovane sindaca di Roma a me pare molto più avanti dei suoi compagni di partito. Nella medesima conversazione telefonica di cui abbiamo riportato qualche passaggio la sentiamo dire: «Dobbiamo capire per cosa è indagata; sinceramente, può essere una bolla di sapone; […] quando abbiamo fatto la riunione con il minidirettorio abbiamo detto: capiamo almeno di cosa stiamo parlando; […] ci può essere il nulla». A quanto pare, anche nel Movimento Cinque Stelle c’è qualcuno che comincia a rendersi conto che gli atti della magistratura, specie nella fase delle indagini, non sono il Verbo in nome del quale si possano comminare scomuniche.
Eccole qua, le tre stelle che mancano al Movimento: politici così in gamba da poter fare a meno della politica; il coraggio di usare tecnici ed esperti retribuendoli per quel che meritano; la rinuncia a usare la magistratura come una ghigliottina.
Non so come andranno a finire le cose per Roma, e tantomeno per il Movimento Cinque Stelle. Ma tendo a pensare che, per entrambi, sarebbe meglio che il pragmatismo di Virginia Raggi, politicamente ingenua ma estremamente consapevole di quanto sia complicata la matassa romana, non soccombesse sotto i colpi del fondamentalismo grillino.
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