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Un messaggio per l’Europa

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L'Editoriale|L’EDITORIALE

Un messaggio per l’Europa

La vittoria di Donald Trump e la conquista della Casa Bianca sono il sigillo ufficiale, inimmaginabile per i più, che siamo di fronte a un mondo diviso. Percorso da una specie di nuova rivoluzione francese, globale e diffusa, dove facciamo i conti ogni giorno con lo scontro tra i “sans-culottes” e le élite che cambiano di Paese in Paese. Facciamo i conti con una protesta diffusa contro tutto ciò che è diverso. Avviene anche in un Paese come gli Stati Uniti, segnati certo da una crescente diseguaglianza, ma con una disoccupazione al 4,9% e uno stato complessivo dell’economia buono. Il risultato elettorale di Trump è l’espressione di una protesta viscerale contro ciò che è percepito come élite, una protesta così forte che riesce ad avere buon gioco anche delle diffidenze iniziali dei repubblicani tradizionali, ovviamente tutti pronti ora a tornare a casa.

È bene prendere atto, siamo già in colpevole ritardo, che il vento populista è globale, non è finito, può portare altri governi populisti. L’ordine, il mercato, la disciplina esprimono valori nobili, ma arrivano attutiti alle coscienze nazionali, le vecchie regole non funzionano più, e non si può chiedere a esse di tornare a dare quello che davano in scenari differenti. Bisogna prendere atto che gli Stati Uniti nell’era di Trump saranno meno aperti agli scambi (questo è un male, soprattutto per l’Europa e per noi) e difenderanno all’inverosimile una sbagliata percezione di sicurezza degli americani, ma è anche vero che porteranno meno tasse e più infrastrutture, investimenti nelle costruzioni e nel farmaceutico, un po’ più di inflazione e un po’ più di debito. Per questo, i mercati hanno voluto credere al Trump vincitore che vuole unire gli americani e rendere ancora più forte la sua economia che non all’impresentabile Trump che faceva orrore agli stessi maggiorenti del partito repubblicano. Insomma, i mercati sanno o vogliono credere di dovere fare i conti con un’America meno aperta con l’Europa, elemento negativo, ma pronta a rinsaldare le sue alleanze con la Russia e che, soprattutto, vuole tornare a crescere ancora di più e rispondere a quei bisogni insoddisfatti che si sono tradotti nella protesta elettorale dell’anima profonda del Paese.

La vittoria di Trump consegna al Vecchio Continente un messaggio inequivoco: o troviamo in Europa l’accordo politico per cambiare la politica economica, e lo facciamo in fretta ignorando i vincoli e i calcoli legati alle troppe scadenze elettorali prossime future, o non ce ne sarà per nessuno. A ben pensarci, questo è il significato di lungo termine, per noi europei, del trionfo di Trump perché esprime il primato della politica allo stato puro, senza la mediazione dei partiti. Si va direttamente dal leader al popolo ed è lui, il leader, che conquista il guscio vuoto del partito. Un dato di fatto che non può non far riflettere. Da Putin a Erdogan, fino a Brexit, e ora con Trump, l’Europa è sempre zitta, potremmo dire non pervenuta. Non c’è, o per lo meno non è emerso, un capitale politico sufficiente per affrontare la delicatezza sociale e la persistenza degli effetti economici della più lunga crisi globale mai conosciuta. Fa paura, questo sì, il vuoto di leadership politica europea che ha un’agenda sempre fitta di troppe cose, spesso inutili, di cui occuparsi. Senza accorgersi che il costo in termini di welfare del populismo è altissimo e che rischia di pagarlo di più proprio chi ha votato sotto l’effetto di uno spirito nuovo contagioso che è quello della protesta. L’esperienza della rivoluzione francese e di come è finita, per i molti elementi di similitudine ancorché in contesti e epoche differenti, deve esserci di ammonimento per il suo epilogo e, forse, ancora di più per quello che è accaduto dopo. Soprattutto a noi italiani, perché come Brexit insegna, il “tail risk” ce lo becchiamo sempre in casa in quanto i mercati ci considerano, a torto o a ragione, un Paese ancora fragile, per lo meno più vulnerabile di altri. Né può esserci di consolazione il fatto che questo modello populista, nelle sue tante declinazioni, è diffuso in tutti i Paesi e, quindi, tutti stanno un po’ peggio. Anche perché questa deriva rischia di essere lunga, oltre che diffusa, e non può che far male. Anzi, molto male.

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