Ancora prima della proclamazione ufficiale della vittoria, la leader del partito di estrema destra francese Front National, Marine Le Pen, si è congratulata con un tweet con Donald Trump per la conquista della Casa Bianca. Un segnale importante da quell’Europa che guarda con simpatia al rappresentante repubblicano. Un sostegno a cui ha fatto seguito sempre da Parigi quello del vicepresidente del partito, Florian Philippot: «Il loro mondo si sta sgretolando. Il nostro sta per essere creato».
Pronto anche il leader xenofobo olandese Geert Wilders su Twitter ha scritto: «La gente si sta riprendendo il proprio Paese. Lo stesso faremo noi». Seguito a ruota da Viktor Orban, il premier conservatore ungherese che ha così commentatao la vittoria di trump:«Che magnifica notizia. La democrazia è ancora viva».
Il sentimento di esultanza è stato condiviso dal leader del Partito per l'Indipendenza del Regno Unito, Nigel Farage, quello che ha dato fuoco alle polveri di Brexit. «Sembra che il 2016 stia per essere l'anno di due grandi rivoluzioni politiche» ha commentato, aggiungendo che il successo di Trump potrebbe essere «più grande di quello della Brexit». La sterlina ai minimi e l’aumento dei prezzi dei beni importati sono evidentemente un successo per Farage.
In Germania, Beatrix von Storch, leader della AfD a Berlino e vice presidente nazionale, ha parlato della vittoria di Trump come «un segnale che i cittadini del mondo occidentale vogliono un cambiamento politico». «Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Germania i cittadini vogliono confini sicuri, meno globalizzazione e politiche di buon senso che siano più concentrati sul loro paese», ha scritto su Facebook.
Persino Alba dorata, formazione di estrema destra greca e terzo partito in Parlamento, si è felicitata con Trump contrario all’ «immigrazione clandestina» e in favore di nazioni etnicamente «pure».
«Questa è stata una vittoria per le forze che si oppongono alla globalizzazione, stanno combattendo l'immigrazione clandestina e che sono a favore di stati etnici puri, a favore di autosufficienza per l'economia nazionale», un portavoce del partito ha detto in un post su YouTube. «Un grande cambiamento globale sta iniziando, che continuerà con i nazionalisti prevalenti in Austria, Marie Le Pen in Francia e Alba Dorata in Grecia».
Non poteva mancare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. «Il popolo americano ha fatto la sua scelta e con questa scelta negli Stati Uniti inizia una
nuova stagione. Auguro un futuro felice agli Stati Uniti,
interpretando favorevolmente la scelta del popolo americano». Dopo le critiche rivoltegli in passato con l'accusa di «non tollerare i musulmani in America»,
e la proposta di far cambiare nome alle Trump Towers di Istanbul, nelle ultime settimane il leader di Ankara aveva ammorbidito la sua posizione verso il neo-presidente americano. Dopo il fallito golpe del 15 luglio in Turchia, Trump aveva a sua volta espresso il suo appoggio ad Ankara: «Ammiro Erdogan
per come ha reagito al colpo di Stato. Che diritto hanno gli Stati Uniti di dire agli altri Paesi cosa devono fare?». Miele per le orecchie di Erdogan impegnato in una feroce repressione del partito dei filo-curdi con arresti di deputati al seguito.
Un nuovo mondo inesplorato si apre davanti a noi dopo il sorprendente voto americano dove sono saltati definitivamente i vecchi schemi politici pre-Brexit. E di fronte a questa nuova realtà geopolitica i populismi europei festeggiano quella che viene definita da alcuni sociologi americani, - come Arlie Russell Hochschild, fortunata autrice di “Stragers in their Own Country”, Stranieri nella propria nazione, un libro basato sulla esperienza sul campo di cinque anni tra i supporters dei Tea Party in Louisiana - , la “vendetta” elettorale della working class bianca che si è comportata come una minoranza etnica pur essendo il 40% dell’elettorato Usa, concentrandosi compatta su un candidato anti-establishment e di rottura. L’operaio bianco arrabbiato e disoccupato è il personaggio antropologico di questa nuova maggioranza silenziosa, come venne definita da Pat Buchanan negli anni 90, che ha dominato questa incredibile consultazione elettorale.
Lunga è la fila di chi è pronto a proporsi come alleato di ferro del nuovo presidente Usa, Donald Trump, campione del ritorno allo stato-nazione, al controllo dei suoi confini dai flussi migratori, alla fine del multilateralismo commerciale a favore del ripristino di dazi e protezionionismi per difendere produzioni e manifatture locali, favorire il fenomeno recente del re-shoring, il ritorno a casa delle delocalizzazioni fatte negli anni passati in Messico e in Asia. Insomma tutti coloro che parlano di ritorno alle nazioni, di muri da costruire, organismi multilaterali commerciali da mettere in soffitta come la World Trade organization,( Wto) insieme alla odiata globalizzazione finanziaria.
Il primo ministro ungherese Viktor Orban, la candidata alle presidenziali francesi Marine Le Pen nonché segretari del Front National, l’olandese Geert Wilders, il candidato austriaco dei Liberal-nazionalisti alle presidenziali del 4 dicembre Norbert Hofer e Frauke Petry, leader estrema dell’Alternative für Deutschland, sono i primi di questa nuova pattuglia di alleati europei di Trump.
Una pattuglia compatta di populisti europei destinata ad ingrandirsi nei prossimi giorni, ben consci che il fenomeno isolazionista americano è la coda del terremoto politico avvenuto in Gran Bretagna con Brexit, un voto refendario popolare che ha scardinato le previsioni fatte dalla maggioranza dell’élite politica britannica liberista e multilateralista.
Sembra proprio realizzarsi la profezia politica del nuovo G7 lanciata in un tweet dal tedesco Martin Selmayr, braccio destro e capo di gabinetto del presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, quando accostò Beppe Grillo al neo ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, Trump e Le Pen parlando di uno «scenario dell'orrore». Nel tweet Selmayr scriveva a maggio scorso e non un secolo fa: «Un G7 2017 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario horror che mostra bene che vale la pena di lottare contro il populismo». Oggi naturalmente Selmayr si congratulerà con il nuovo presidente americano come vuole la realpolitik di bismarchiana memoria, ma dovrà cominciare a rivedere gli scenari.
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