Commenti

Commercio mondiale al bivio: se Trump si ritira, sarà la Cina a…

  • Abbonati
  • Accedi
SCAMBI COMMERCIALI

Commercio mondiale al bivio: se Trump si ritira, sarà la Cina a diventare il nuovo traino?

Proteste a Washington contro il TPP, l’accordo commerciale per l’Asia  sconfessato da Trump
Proteste a Washington contro il TPP, l’accordo commerciale per l’Asia sconfessato da Trump

La Cina salverà la globalizzazione degli scambi commerciali dal rigetto degli Stati Uniti del nuovo presidente Trump? La minaccia di una leadership cinese o le pressioni delle aziende americane potranno convincere Trump a rivedere la sua posizione sugli accordi commerciali, incluso il Partenariato transpacifico (Tpp) stipulato dal presidente Obama? La risposta alla prima domanda è sì, ma solo fino a un certo punto: la Cina non potrebbe colmare il vuoto lasciato da un disimpegno e un ripiegamento degli Stati Uniti nemmeno se lo volesse, però potrebbe dare una mano. Quanto alle intenzioni di Trump, non sappiamo se siano incrollabili o negoziabili.

Il presidente cinese Xi Jinping questo fine settimana ha promesso un radioso mondo nuovo guidato da Pechino e caratterizzato dall’apertura a scambi e investimenti. Il Tpp di Obama era pensato per escludere la Cina. Ora Trump ha annunciato che quando entrerà in carica gli Stati Uniti si tireranno fuori dall’accordo e questo lascia campo libero alla Cina per promuovere la sua alternativa, il Partenariato economico generale regionale (Rcep, nella sigla inglese). Sette dei dodici Paesi che dovrebbero far parte del Tpp sono membri potenziali dell’Rcep. Xi, inoltre, offre ai Paesi latinoamericani accesso al suo progetto di una «Nuova Via della Seta».

CHI CONTA DI PIÙ
Quota sull’import globale, 2015. Dati in percentuale. (Fonte: IMF)

Ma la Cina può sostituire gli Stati Uniti (per non parlare dell’Occidente) nei commerci globali solo fino a un certo punto. Se guardiamo le quote del prodotto interno lordo mondiale a prezzi di mercato, un parametro approssimativo del potere d’acquisto effettivo, la quota della Cina è schizzata dal 4% del 2000 al 15% del 2016; la quota dell’Asia (Giappone incluso) è del 31%; Stati Uniti e Unione Europea insieme, da parte loro, rappresentano il 47% del Pil mondiale. La situazione è simile per quanto riguarda le importazioni mondiali (si veda il grafico): nonostante la rapida crescita, la quota della Cina era soltanto del 12% nel 2015, e quella dell’Asia del 36%; gli Stati Uniti e l’Unione Europea (escludendo i commerci intra-Ue) rappresentavano ancora il 31% delle importazioni mondiali.

“Buona parte degli scambi commerciali attuali nasce da aziende di economie ad alto reddito. Le imprese cinesi non hanno ancora da offrire un know-how comparabile”

 

Va aggiunto che questi dati non danno conto fino in fondo del ruolo delle economie ad alto reddito nei commerci mondiali, sotto due aspetti importanti. Il primo è che gran parte della domanda finale mondiale proviene ancora da queste economie: ai prezzi di mercato, i consumi cinesi nel 2015 corrispondevano grossomodo a un quarto di quelli di Stati Uniti e Unione Europea messi insieme. Il secondo aspetto, di gran lunga più importante, è che la conoscenza che fa da traino a buona parte degli scambi commerciali attuali nasce da aziende di economie ad alto reddito; le economie cinesi non hanno ancora da offrire un know-how comparabile.

Nel suo libro «The Great Convergence», Richard Baldwin, della Graduate School di Ginevra, mette bene in evidenza la natura degli scambi commerciali nella nostra era, quella della «seconda globalizzazione» dopo la Rivoluzione Industriale. Il punto fondamentale di Baldwin è che gli scambi commerciali sono sempre limitati dai costi della distanza, e i costi rilevanti sono quelli del trasporto, delle comunicazioni e dei contatti faccia a faccia.

Nella prima globalizzazione, alla fine del XIX secolo, la rapida crescita dei commerci mondiali era trainata dal calo dei costi di trasporto delle merci, che consentì di creare, a livello mondiale, uno scambio di prodotti lavorati contro risorse naturali e prodotti agricoli (prevalentemente dalle Americhe e dall’Australasia). A quei tempi, però, era impossibile smembrare il processo di fabbricazione. Per essere competitivo in un certo settore, un Paese doveva padroneggiare tutte le competenze necessarie. Il risultato era che la produzione manifatturiera e, con essa, i guadagni derivanti dalle economie di scala e dall’apprendimento attraverso la pratica (learning by doing) erano concentrati nelle economie ad alto reddito.

A CHI PIACE LA GLOBALIZZAZIONE
Giudizi positivi sulla globalizzazione: in percentuale per Paese. (Fonte: YouGv)

Inoltre, i lavoratori poco qualificati condividevano molti di questi guadagni, ottenendo come risultato livelli di reddito e influenza politica senza precedenti. Tutto questo succedeva perché avevano un accesso privilegiato ai frutti della conoscenza sviluppati all’interno delle loro economie.

Fino a circa 25 anni fa, l’unico modo per entrare a far parte di questo club di privilegiati era sviluppare delle industrie competitive proprie. Non era semplice: pochi Paesi ci riuscivano. Ma nella seconda globalizzazione i costi delle comunicazioni sono scesi talmente tanto che è diventato possibile smembrare (o frammentare) il processo di produzione, con la produzione dei componenti e l’assemblaggio finale sparpagliati per tutto il mondo, sotto il controllo di produttori o acquirenti in possesso della conoscenza rilevante. Come scrive Baldwin, gli operai della Carolina del Sud «non devono competere con la manodopera messicana, il capitale messicano e la tecnologia messicana, come succedeva negli anni 70. Devono competere con una combinazione quasi imbattibile di know-how americano e salari messicani».

“La nuova dinamica degli scambi commerciali ha determinato i sentimenti protezionistici che hanno portato al potere Trump. Chi beneficia del know-how? ”

 

Il capitalismo nazionale è diventato globale. E vale anche per una parte delle attività dei servizi. La gran parte delle economie in via di sviluppo non è riuscita a sfruttare queste opportunità, ma qualcuna – in particolare la Cina – sì.
Lo scambio di prodotti lavorati contro materie prime continua, in particolare tra la Cina e i suoi fornitori. Ma è la nuova dinamica degli scambi commerciali che ha determinato i sentimenti protezionistici che hanno portato al potere Trump. Lo scontro politico ormai verte su chi beneficia del know-how sviluppato dalle aziende dei Paesi ad alto reddito.

Questo scontro solleva un importante interrogativo normativo: chi dovrebbe vincere? E anche un interrogativo positivo: chi vincerà? Trump favorirà i lavoratori americani rispetto ai proprietari e ai manager delle aziende americane? Oppure si limiterà a fingere di farlo, offrendo gesti simbolici – come il rigetto del Tpp, la rinegoziazione del Nafta (l’Accordo di libero scambio del Nordamerica) o la minaccia di dazi contro la Cina – ma lasciando più o meno invariato lo stato dei commerci mondiali? Non potrebbe, alla fin fine, giungere alla conclusione che offrire alla Cina l’occasione di organizzare i commerci mondiali va contro gli interessi degli Stati Uniti? Non potrebbe paventare il rischio che, limitando il ruolo degli Stati Uniti nella «frammentazione» mondiale della produzione, le aziende del suo Paese si troverebbero in una situazione di svantaggio e potrebbero addirittura spostare una parte ancora maggiore delle loro attività verso regioni più accoglienti?

L’Asia in generale, e tantomeno la Cina, non sono in grado di tenere in piedi il dinamismo dei commerci mondiali solo con le loro forze. L’Occidente ha un peso troppo rilevante, anche e soprattutto per la Cina.Fortunatamente, le forze in favore dei commerci globali rimangono potenti. Perfino Trump potrebbe scoprire di non avere la capacità o la volontà di ostacolarle.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

Copyright The Financial Times Limited 2016

© Riproduzione riservata