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Lezioni dalle urne: perché l’Italia è meno divisa di quel…

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L’ANALISI

Lezioni dalle urne: perché l’Italia è meno divisa di quel che sembra

(Afp)
(Afp)

Tanto vale che lo dica subito, per chiarezza: io non sono andato a votare. Di questa sciagurata tenzone, infatti, non mi è piaciuto proprio nulla.

Ma di tutte le cose che mi sono dispiaciute ce ne sono soprattutto due che mi hanno allontanato dal voto. La prima è che il referendum ha tolto ogni spazio di espressione ai riformisti radicali come me, ovvero a quanti pensano che la Costituzione richieda un robusto restyling, ma non così, non con questo brutto anatroccolo.

Può darsi che mi sbagli, ma avendo ascoltato in questi lunghi mesi l’opinione di decine di amici, conoscenti, colleghi professori e giovani studenti, mi sono persuaso che questa sia la vera maggioranza del Paese, e che essa si nasconda sia nel “sì”, sia nel “no”, sia nella scelta di chi, come me, si è astenuto.

Chiediamocelo: quante persone hanno votato “no” pur pensando che la Costituzione del 1948 andrebbe aggiornata? E quante persone, anche di primissimo piano, hanno votato “sì” nonostante un certo orrore per la riforma bosco-renziana? Un orrore cui, mi spiace farlo notare, non poco ha contribuito l’inoppugnabile circostanza che la Riforma non risulta scritta nella nostra bella e amata lingua italiana, bensì in un orripilante gergo giuridico-politico (che per di più viola la sacrosanta raccomandazione europea di evitare i rimandi a articoli, commi e singole parole di altri testi di legge).

Chissà, mi sono detto, quanto hanno sofferto politici eminenti come Prodi, Parisi, o Cacciari a ingoiare un simile affronto alla logica e alla lingua. Ma anche, chissà come hanno patito tanti votanti del “no” a mescolarsi con quanti hanno fatto della Costituzione del ’48 una sorta di totem, sacro e inviolabile. Perché si può anche essere d’accordo, con il saggio genitore di Romano Prodi, che «nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone», ma non sempre è chiaro qual è l’osso e qual è il bastone.

Forse sono condizionato dal fatto che, pur non essendo psicologo, insegno in una facoltà di Psicologia, ma mi sono convinto che, fra quanti vorrebbero aggiornare la Costituzione ma ambirebbero a farlo con un testo limpido come quello dei Costituenti, le differenze fra chi ha scelto il “sì”, chi ha scelto il “no” e chi ha preferito il non-voto siano essenzialmente psicologiche: in ultima analisi non è la logica, ma è la personalità di ciascuno di noi che, di fronte a tre alternative nessuna delle quali convincente, ci ha indotto a sceglierne una scartando le altre due.

E questa è la seconda cosa che non mi è piaciuta. Imponendo con spavalderia un testo mal scritto e frutto di alchimie parlamentari, del tutto sprovvisto di certezze collaterali per quel che riguarda l’essenziale capitolo della legge elettorale (anzi delle due leggi: Camera e Senato), i nostri giovani governanti hanno creato una spaccatura artificiale fra i cittadini italiani, una spaccatura che non sarà facile ricomporre e che renderà più arduo ogni tentativo futuro di aggiornare la Carta fondamentale.

Perché l’hanno fatto? Perché questo inutile harakiri?

Si potrebbero indicare tante ragioni. Ma a me pare che la più importante sia una diagnosi sbagliata, drammaticamente sbagliata, sui mali dell’Italia. Dietro l’enorme importanza che è stata attribuita alla Riforma costituzionale non c’è solo il bisogno di lavare il peccato originale del renzismo, ovvero di aver conquistato il potere con una manovra di palazzo anziché con il voto popolare. No, dietro quell’accanimento sulla Riforma c’è anche l’errata credenza che i guai dell’Italia dipendano in misura non trascurabile dalla Costituzione del 1948, e che la rimozione di quell’ostacolo avrebbe liberato le energie migliori del Paese. Una credenza che, sia detto per inciso, da decenni seduce i politici italiani per l’elementare motivo che essa li aiuta ad autoassolversi dalle loro responsabilità nel disastro del Paese.

Ebbene, permettetemi di dire che si tratta di una notevole sciocchezza. Mafia, corruzione, evasione fiscale, sprechi, incapacità di ridurre le tasse e la spesa pubblica improduttiva, deterioramento dei conti pubblici, farraginosità delle leggi, onnipotenza della burocrazia, ristagno del Pil, produttività ferma da vent’anni, dipendono al 99% da noi e dalla maggiore o minore serietà dei governi che ci scegliamo, e forse all’1% dal fatto che la Costituzione ha alcuni difetti e limiti. Il maggiore dei quali, ironia della sorte, è stato prodotto precisamente da una delle più infelici manomissioni della Costituzione del 1948: la famigerata Riforma del Titolo V del 2001, voluta dall’Ulivo per fare concorrenza alla Lega, e anche allora colpevolmente imposta a colpi di maggioranza.

Se c’è del vero in questa ricostruzione, non solo il governo sconfitto ma anche il variegato vittorioso fronte del “no” dovrebbe assumere un atteggiamento più composto, per non dire più umile. Perché, se la realtà è che sia nel fronte del “sì” sia in quello del “no” molti hanno semplicemente scelto quello che avvertivano come il male minore, la conseguenza logica da trarne è che i “sì” convinti a Renzi sono meno dei “sì” alla Riforma, e i no a qualsiasi cambiamento della Costituzione sono meno, molti di meno, dei “no” a questa Riforma. Detto altrimenti, noi cittadini siamo assai meno divisi, e assai più disponibili a cambiare la Costituzione, di quanto la schiacciante vittoria dei “no” lasci intendere. Sta a noi non farci prendere né dall’euforia della vittoria né dal rancore per la sconfitta. Sta a noi non lasciarci trascinare nel vortice delle polemiche che, con puntuale determinazione, il teatro della politica si appresta a scatenare sulle nostre teste. Sta a noi pretendere da tutti, politici del sì e politici del no, il ritorno a un minimo di rispetto reciproco, e di ascolto delle ragioni dell’altro.

Ascolto: la cosa che, più di tutte, mi è mancata in questa folle attesa del giorno del giudizio.

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