Quanto potrebbe ”pesare” un possibile protezionismo di ritorno Usa sui conti del Made in Italy? E soprattutto, se lo scenario per l’export italiano, verso e in competizione con gli Usa, cambierà, sarà a vantaggio di chi? In attesa di capire, al netto degli annunci da campagna elettorale, come davvero potrebbero virare la politica economica e internazionale con il prossimo presidente Usa, la società di consulenza e centro studi Prometeia ha provato a fare un po’ di calcoli. Partendo da un dato. Oggi – con 35 miliardi di euro di export italiano oltreoceano nel 2015 – gli Stati Uniti rappresentano per noi il terzo mercato di destinazione (il primo extra-europeo, dopo Germania e Francia), dopo aver aumentatao il “peso specifico” sull’export nazionale dal 6,2% del 2010 al 9,2% del 2015.
Difficilmente una politica commerciale anni ’80 e pre-Wto (“Make America great again” la citazione reaganiana utilizzata da Trump) appare compatibile con l’attuale flusso di cui gli Stati Uniti stessi sono oggi garanti.
Tuttavia – e questa è l’ipotesi – se si decidesse di riportare, ad esempio, le tariffe doganali a livelli degli anni 90 (nella simulazione di Prometeia, al 1989), gli ulteriori oneri doganali costerebbero alle imprese italiane quasi 800 milioni di euro, il 2% degli attuali valori esportati verso gli Usa.
Può non sembrare un’enormità. Ma non tutto il “Made in Italy” subirebbe lo stesso trattamento. Sempre secondo le stime di Prometeia, il ritorno ai dazi commerciali peserebbe per oltre 345 milioni di euro sui nostri beni di consumo più “tradizionali”: la moda, le calzature, il design e il food. Per 216 milioni di euro sulla meccanica e i mezzi di trasporto (da quella strumentale alla componentistica auto), per 62 milioni sui prodotti e materiali da costruzione. Per 43 milioni, poi, sulla metallurgia e per 32 milioni sulla chimica-farmaceutica. Tutto ciò al netto di eventuali restrizioni sanitarie e fitosanitarie, che potrebbero appesantire ancora di più l’export di settori specifici.
Ma siccome la politica commerciale non la fa la sola Italia, ma è materia Ue (come hanno dimostrato i per ora “congelati” negoziati sul Ttip), dei dazi avrebbero un effetto-zavorra su tutto il mercato Ue e, con un effetto domino, sulle supply chain internazionali, di cui le prime vittime sarebbero proprio le multinazionali americane.
«Ci sono due aspetti – spiega Carlo Altomonte, docente di commercio internazionale dell’Università Bocconi di Milano – che ci fanno capire come “punire” le esportazioni significa oggi colpire soprattutto la stessa economia Usa che si vuole salvaguardare. Da un lato, il fatto che, ad esempio, un iPhone è il frutto di una “supply chain che tra materie prime e assemblaggio coinvolge una decina di Paesi. Non solo Cina, ma anche Corea del Sud, Francia, Germania e Giappone e che poi viene importato per le fasi finali negli Stati Uniti. Dall’altro, già oggi circa il 50% dell’import statunitense sono acquisti da affiliate estere delle stesse multinazionali Usa, alle quali non si può imporre di produrre tutto all’interno degli Stati Uniti, altrimenti quegli stessi prodotti avrebbero prezzi insostenibili per la stessa classe media americana».
«Per questo – spiega Alessandra Lanza, responsabile della practice Strategie Industriali e Territoriali di Prometeia – è più probabile che l’idea di una politica “muscolare” da parte della nuova amministrazione Usa passi per iniziative per lo più interne: spesa pubblica, immigrazione e dollaro forte. Dollaro forte che, in particolare, potrebbe non avere un effetto sfavorevole, a breve, sugli esportatori italiani. Un apprezzamento del dollaro sull’euro ci renderebbe, infatti, più competitivi. Anzi – conclude Lanza– nell’immediato una politica economica espansiva è destinata a rafforzare la domanda interna, offrendo occasioni di fornitura alle imprese internazionali (beni di consumo per quello che riguarda la detassazione sulle persone fisiche, beni d’investimento per i progetti infrastrutturali)».
“Punire le esportazioni significa oggi colpire soprattutto la stessa economia Usa che si vuole salvaguardare”
Carlo Altomonte, università Bocconi
Stime Prometeia (da inizio novembre il cambio è passato da 1,11 agli attuali 1,07) riportano che una valuta americana vicina alla parità con l’euro per tutto il 2017 varrebbe per l’Italia, un aumento di circa il 2% in termini di maggior export nel mondo, a cui però occorrerebbe sottrarre, in termini di crescita, un onere maggiore di circa il 5%, per noi, nell’approvvigionamento in euro di materie prime.
Infine, c’è da considerare che, in alcuni Paesi e settori, imprese italiane e statunitensi sono direttamente concorrenti. Andando a guardare a oltre 6.600 combinazioni prodotto/mercato con cui Prometeia analizza il commercio mondiale, nel 15% di queste – soprattutto nei settori della meccanica, dell’alimentare e della moda – Italia e Usa sono già oggi tra i primi 5 competitor. Soprattutto perché la competizione avviene in Paesi “interessanti”, come Canada e Brasile, dove è maggiore la quota di export tricolore in concorrenza con i fornitori americani, coprendo oltre il 50% dei flussi commerciali.
Mentre in Europa, la concorrenza Italia-Usa è più serrata in Regno Unito e Russia. Mercati la cui attrattività dipenderà, nei prossimi anni, più da scelte politiche (tra Brexit e superamento delle sanzioni) che da effettive capacità di stare sul mercato.
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