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Dazi, perché siamo sull'orlo di una guerra commerciale mondiale

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addio al globalismo?

Dazi, perché siamo sull'orlo di una guerra commerciale mondiale

Dal disgelo all'orlo di una guerra commerciale. Di nuovo. Negli ultimi giorni, lo scenario globale è rimasto sospeso fra segnali di apertura e rotture che potrebbero scardinare (o hanno già scardinato) gli equilibri internazionali. Dopo il disgelo fra le due Coree e l'attesa per l'incontro fra Kim e Trump, l'atmosfera è tornata a surriscaldarsi con lo scontro fra Stati Uniti ed Europa sull'argomento più delicato degli ultimi mesi: i dazi. Tre leader del Vecchio Continente (Macron, May, Merkel) hanno fatto a sapere a Trump che «reagiranno» se la Ue verrà inclusa nelle nuove tariffe sulle importazioni di alluminio e acciaio; Trump non ha fatto nulla per alleggerire i toni sostenendo che la Ue «è nata per approfittarsi degli Usa»; oggi la commissaria europea al commercio, Cecilia Malmström, farà un ultimo tentativo di dialogo con la controparte americana per evitare la deflagrazione di una trade war, una guerra commerciale, dopo le visite a vuoto a Washington degli stessi Macron e Merkel. Gli Usa hanno infatti fissato al 1 maggio, domani, la scadenza per decidere se esentare la vecchia Europa dalle tariffe che agitano i rapporti internazionali.

Sullo sfondo restano nel vivo le crisi fra Usa e Cina, il conflitto per la supremazia nel 5G, la crisi degli oligarchi russi affossati dalle sanzioni… Proviamo a fare un po' di ordine, scorrendo a ritroso le tappe che ci hanno portato fino a qui. Cosa è successo? A grandi linee, sembra di essere di fronte a un «tutti contro tutti» giostrato fra quattro poli ( Stati Uniti, Russia, Cina, Corea del Nord, con l'aggiunta della Ue sullo sfondo) e altrettanti terreni di conflitto (dazi, predominio tecnologico, sanzioni e ingerenze dell'intelligence). Riavvolgiamo il nastro e iniziamo dalla parola-chiave: dazi.

Che cosa sono?
Tecnicamente, i dazi sono un'imposta indiretta che colpisce la circolazione delle merci. Si applicano ai prodotti in arrivo dall'estero, se il paese di provenienza non rientra in una zona di libero scambio come può essere l'Unione europea. Il mercato che li impone ne guadagna in introiti fiscali, anche se gli importatori (e i consumatori) sono penalizzati da un costo aggiuntivo. Di per sé possono essere uno strumento di tutela da una concorrenza sleale o low cost, ma anche una scelta politica per affossare un avversario sgradito. Ultimamente sono tornati alla ribalta perché Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti, ha iniziato a proporre di istituire tasse sulle importazioni per «difendere le industrie americane» dalla concorrenza esterna di mercati che producono a ritmo più intenso con costi del lavoro molto minori. In particolare, la Cina.

Già, che succede tra Usa e Cina?
C'è una «guerra commerciale», nel senso che le due potenze si stanno scambiando ritorsioni per penalizzare l'una il mercato dell'altra. A dare il via alle ostilità è stato Trump, con un attacco in due atti. Nel primo attacco ha fissato dazi del 25% e 10% mirati - rispettivamente - alle importazioni di acciaio e alluminio. Un'offensiva tutt'altro che velata alla Cina, produttrice di entrambi (ne vende negli Usa per circa 3 miliardi di dollari) e primo partner commerciale degli Stati Uniti. Nel secondo attacco ha alzato il tiro, allungando la lista di merci sovra-tassate a più di 1.300 prodotti tecnologici con un valore totale di 50 miliardi di dollari. Perché tanto accanimento? Trump vuole ridurre il deficit degli Usa verso il mercato cinese, sovvertendo (o bilanciando) un interscambio tutto a favore del Dragone. Nel 2017 Pechino ha esportato 505,5 miliardi negli Usa e importato dagli States per 130,3 miliardi, con un saldo in positivo di 375,2 miliardi di dollari. In palio c’è la supremazia in alcuni settori, a partire dalle tecnologie (vedi sotto), dove gli Usa soffrono l’espansione di grandi marchi del Far East. Lo scontro si riproduce anche nel mercato delle startup, le imprese innovative, oggi in ascesa a ritmo più intenso nel Continente rosso rispetto alla Silicon Valley.

Dal canto suo, la Cina ha reagito colpo su colpo. Con gli stessi metodi. Prima ha aumentato i dazi oltre il 15-25% su un totale di 128 prodotti statunitensi, dalla frutta all'etanolo. Poi ha rincarato la dose annunciando tasse aggiuntive su altri 106 prodotti, inclusi la soia (piatto forte dell'export agrolimentare Usa a Pechino: 14 miliardi di dollari nel 2017) e il sorgo (graminacea che potrebbe suonare abbastanza anonima se non fosse l'ingrediente fondamentale del baijiu, un liquore che spopola sulle tavole dei cinesi). Il tutto per un danno economico agli Usa di 50 miliardi, non a caso identico a quello paventato da Washington. Va detto che si è aperto qualche spiraglio di dialogo, lasciando sperare in una distensione dei rapporti. Pechino ha appena annunciato che dal 2022 allenterà le norme sull'ingresso di investitori stranieri nel mercato dell'automotive, rimuovendo il tetto massimo del 50% nella partecipazione straniera a joint-venture con aziende locali. La misura potrebbe giocare a favore dei colossi statunitensi, inclusi marchi più giovani come Tesla (un'azienda di auto elettriche che ha scontato alterne fortune e guarda con grande interesse al mercato cinese). In più, sempre di recente, il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin ha annunciato che sta valutando una visita in Cina per discutere sulle relazioni economiche fra i due paesi. Il ministero del Commercio locale ha confermato.

E «i mercati» cosa c'entrano?
C'entrano perché i listini risentono spesso (ma non sempre) delle fibrillazioni geopolitiche. Soprattutto quando colpiscono nel vivo dei segmenti industriali, influenzando le prospettive di crescita e quindi i margini che possono derivare da alcuni titoli. Tutte le grandi piazze finanziarie globali, a partire da Wall Street, hanno accusato il colpo con sedute in forte ribasso. Ad esempio il comparto delle tecnologie ha sofferto le minacce di Trump a un grosso marchio della telefonia come Huawei, “colpevole” di spingere in avanti la Cina nella sfida globale del 5G.

E qui arriviamo al secondo punto, i conflitti per il predominio tecnologico?
Sì. Fra le (tante) sfide sul tappeto, quella che sembra turbare di più Trump si chiama 5G: sigla di Fifth generation, la nuova generazione di connessioni ultraveloci che si preparano a diventare il nuovo standard globale. A beneficio dei giganti asiatici di settori, più ricettivi rispetto alle controparti americane nel fiutare la rivoluzione industriale in arrivo. Dopo essersi adagiato per anni sui suoi colossi delle telecomunicazioni, il mercato americano si è infatti svegliato con un brusco ritardo nel settore rispetto ai maxi investimenti schierati dalle aziende della Cina. Un report di Jefferies, una società di consulenza, ha stimato che il 10% di 1.450 brevetti depositati in materia di 5G arriva da «mani cinesi», incluso il colosso della telefonia Huawei (600 milioni di dollari messi sul piatto dal 2009, altri 800 milioni in arrivo quest'anno) e il produttore di semiconduttori Zte.

La reazione sposata dall'amministrazione Trump è ancora una volta all'insegna del protezionismo. Huawei è stata di fatto bandita dalla vendita diretta, dopo che le pressioni politiche hanno costretto la compagnia telefonica At&T e il rivenditore al dettaglio Best Buy a rinunciare al commercio dei device targati dall'azienda di Shenzen. Più di recente il bando si è allargato anche a Zte, con il divieto per le aziende americane di fare affari con il produttore asiatico. Sia per Huawei che per Zte, la motivazione ufficiale è che le due aziende potrebbero fare da insider del governo cinese, fornendo a Pechino le informazioni carpite dagli utenti americani.

Le sanzioni a Russia e Corea del Nord
Il terzo termine che imperversa nelle crisi geopolitiche è «sanzioni». Verso chi? In genere ci si riferisce a quelle inflitte, in periodi e con motivi diversi, a Russia e Corea del Nord. Nel primo caso, l'Unione europea ha avviato nel 2014 una serie di misure restrittive contro Mosca in risposta alla «annessione illegale della Crimea e alla deliberata destabilizzazione dell'Ucraina». Più di recente Trump ha annunciato multe contro la Russia in due occasioni, prima a inizio aprile (con caduta rovinosa per il rublo e i titoli delle principali aziende) e poi in risposta al sospetto attacco chimico sulla città di Douma a opera dell'alleato di Putin Assad (salvo fare dietrofont e spiegare che, in questo caso, si era trattato solo di un «ammonimento»). Gli effetti si sono avvertiti anche di recente: le multe alla Russia hanno fatto impennare il prezzo dell’alluminio, in rialzo fino a picchi del 30%, danneggiando un oligarca putiniano come Oleg Deripaska e la sua Rusal (uno tra i maggiori produttori mondiali del metallo). In un secondo momento gli States si sono mostrati più morbidi sulla questione, lasciando intendere un alleggerimento delle sanzioni. E i prezzi dell’alluminio sono tornati su livelli accettabili.

Quanto alla Corea del Nord, il regime di Pyongyang è stato sanzionato dall'Onu per i test nucleari svolti l'anno scorso e dovrebbe ricevere un trattamento simile dagli Stati Uniti. Con Trump, però, si è creato un periodo di «distensione nucleare» che dovrebbe sfociare in uno storico incontro fra i due.

La crisi diplomatica con la Russia
E a proposito di Russia, i suoi diplomatici hanno subìto un'espulsione di massa da sedi statunitensi, europee ed asiatiche a seguito del cosiddetto caso Skripal: l'avvelenamento dell'omonima ex spia Kgb e di sua figlia avvenuta lo scorso marzo a Salisbury, nel Regno Unito. In totale sono stati cacciati oltre 100 diplomatici su scala globale, di cui 60 solo dagli Stati Uniti (e due dall'Italia). L'accusa di Theresa May, primo ministro britannico, è di servire da «spie nascoste» al governo di Putin. A sua volta, ex spia Kgb.

E l'Europa?
L'Europa, intesa come le sue istituzioni, non è rimasta a guardare. La Commissione (il motore legislativo della Ue) sta facendo pressing per essere esclusa dai dazi di Trump su alluminio e ferro. Le negoziazioni sono ancora in corso. In caso di esito negativo potrebbe scattare una ritorsione simile a quella intentata dalla Cina. A quanto si apprende dai media internazionali, la Commissione ha approvato in settimana una lista di «contro-dazi» per tassare al 25% una serie di prodotti made in Usa. L'elenco, che include yacht e arachidi, si tradurrebbe in un impatto di 2,8 miliardi di euro a sfavore degli Usa. Ma c’è dell’altro. Sotto alla regia di Parigi, l’Europa sta cercando di convincere Trump ad allentare le sanzioni sulla Russia, ammorbidendo una politica che sta mettendo a rischio le forniture del Vecchio Continente.

Il principio di fondo sembra essere più politico che economico: la Commissione vuol presentarsi come un blocco e un mercato unico a Trump, abituato a dialogare con i singoli paesi membri. Occasione che, per altro, gli si è appena presentata: il presidente francese Emmanuel Macron è volato negli Usa, dove ha incontrato Trump. Se non dovesse servire la dialettica, comunque, l’Europa può passare ai moniti. Di recente lo stesso Macron, Angela Merkel e Theresa May hanno detto a Trump che la Ue «si difenderà» in caso di misure commerciali ostili. Per ora il Vecchio Continente è rimasto esentato, in un periodo di standby che dura fino al primo maggio. Da martedì in poi, toccherà a Washington stabilire se includere o meno i partner europei fra le vittime del protezionismo. La parola a Trump.

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