La fabbrica del mondo che diventa fucina di innovazione. È in questa trasformazione della Cina che si annida il senso di quei timori, strategici, attorno ai quali si sta combattendo questa battaglia con gli Usa a colpi di dazi commerciali. Un corpo a corpo in cui c’è un numero che suscita molta attenzione: 10 per cento. Uno su dieci fra i brevetti essenziali per la costruzione delle reti 5G è in mani cinesi, e in particolare di Huawei.
È innegabile che questo colosso delle tlc faccia paura dalle parti di Washington. La faceva già nel 2012 quando un report della commissione Intelligence del Congresso Usa chiedeva alle aziende di telecomunicazioni americane di non utilizzare le apparecchiature fornite dalla società e da Zte, considerate non libere da influenze statali e quindi minaccia per la sicurezza nazionale. Insomma, cavalli di Troia del governo cinese per raccogliere illegalmente dati o anche intervenire con manomissione delle reti di telecomunicazione in caso di scontro. Quello che è diventato un colosso da 92,5 miliardi di dollari di ricavi nel 2017 (+15,7% sul 2016) con utile netto a 7,3 miliardi di dollari (+28,1%) fa ancora più paura oggi, alla luce di quella percentuale di “proprietà intellettuale” del 5G e soprattutto nel quadro più ampio del piano “Made in China 2025”.
Le ambizioni mondiali della Cina passano da qui, da questo piano con cui Pechino mira a raggiungere in 7 anni il 70% dell’autosufficienza in settori strategici fra cui robotica, aerospazio, tlc, intelligenza artificiale. Il tutto condito da una serie di acquisizioni strategiche. Non è un caso che l’amministrazione Usa sia scesa pesantemente in campo per bloccare il takeover di Broadcom su Qualcomm nel settore dei semiconduttori, che fanno “girare” l’industria mondiale della telefonia mobile. Il tutto mettendo il veto a una proposta monstre di 105 miliardi di dollari salita poi, dopo un primo rifiuto, a 120. Lo spostamento annunciato della sede di Broadcom da Singapore agli Usa non ha rassicurato il Comitato per gli investimenti esteri degli Usa (Cfius) e alla fine Broadcom è stata costretta a rinunciare con il Cfius che ha puntato l’indice contro «Huawei e altre compagnie di telecomunicazioni cinesi» segnalando come «un passaggio al predominio cinese nel 5G porrebbe conseguenze negative per la sicurezza degli Usa».
Alla luce di tutto questo diventa chiaro come le reti di prossima generazione rappresentino inevitabilmente il pallino della sfida fra Cina e Usa. Gli operatori mobili Usa – AT&T, Sprint, T-Mobile e Verizon – lanceranno le prime commercializzazioni del 5G al massimo al 2020, per questa tecnologia che dovrebbe consentire una velocità di 20 Gigabit al secondo in download su rete mobile e tempi di latenza nell’ordine dei millisecondi. Dalla chirurgia a distanza all’Internet delle cose (IoT) con i suoi oggetti connessi, all’energia, all’automotive, gli ambiti di utilizzo sono molteplici. Con le reti 5G il collegamento fra persone diventerà secondario rispetto a quello fra macchine. Il che significa dati e informazioni che su quelle reti dovranno transitare.
Negli Usa questa equazione non ha faticato a far suonare campanelli di allarme per l’avanzata cinese capeggiata a livello mondiale proprio da Huawei. Il colosso con sede a Shenzhen impegna oltre 500 ingegneri e 11 Centri R&D nel mondo sulla ricerca 5G. In Usa Huawei è presente con un centro ricerca, in Silicon Valley, e in Nord America altri due centri sono in Canada: a Toronto e Ottawa. Però sul mercato delle reti Huawei negli States non riesce a entrare. E nel consumer quello che è il terzo player al mondo, dopo Samsung e Apple, ha dovuto far fronte al doppio smacco di AT&T e della catena Best Buy, che hanno fatto retromarcia sulla vendita dei device Huawei.
Fatto sta che il player cinese – che sulle reti ha scalzato Ericsson dal primo posto nel ranking mondiale e che dal segmento “carrier” trae la metà (49,4%) del fatturato – ha iniziato a fare sperimentazioni sul 5G nel 2009. Entro il 2018 si prevedono investimenti per 600 milioni di dollari in ricerca e innovazione, sempre sul 5G. Tutti elementi che non sfuggono all’attenzione di Washington tanto che si è fatta strada nei mesi scorsi l’ipotesi di una rete 5G “di Stato” ventilata dal National Security Council. Un’idea che ha suscitato critiche, ma anche endorsement. Fra questi c’è chi ha malignamente ricordato che a fondare Huawei nel 1987 è stato Ren Zhengfei, un ex ingegnere dell’esercito cinese.
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