Un leader anti-establishment prende il potere dopo un’elezione combattuta. La sua amministrazione si rivela presto corrotta, ma lui sovverte il sistema legale e riesce non solo a fare piazza pulita delle indagini sulla sua corruzione, ma riesce a consolidare il potere e minare le istituzioni che potrebbero limitarlo.
Parlo di Trump? Potrebbe essere. Ma il personaggio che ho in mente è Recep Tayyip Erdogan, presidente della Turchia, che con la sua riuscita manovra di politicizzare la magistratura per sfuggire alle accuse di corruzione offre un’inquietante anteprima di quello che potrebbe fare Trump per diventare il governante autoritario che ambisce a essere. Non sorprende che Trump, il quale pare nutrire apprezzamento per i dittatori, abbia espresso ammirazione per Erdogan.
Istinti autoritari e disprezzo per la legge non sono le uniche cose che hanno in comune Erdogan e Trump. Nutrono disprezzo anche per competenza ed esperti. In particolare, si sono circondati di persone che si distinguono per ignoranza e idee strampalate: Erdogan ha consulenti convinti che il presidente turco sia oggetto di attacchi psichici; Trump ha consulenti che si prendono a parolacce mentre sono in missione.
Ma che importa? In America la Borsa viaggia e l’economia bene o male va avanti. Sotto Erdogan c’è stato un vero boom economico. Investitori e mercati non sembrano preoccuparsi se al vertice c’è un pazzo. Il fatto che i decisori della politica economica non sappiamo di cosa stiano parlando non fa differenza.
Fino al momento in cui comincerà a fare differenza. La verità è che per la maggior parte del tempo la qualità della direzione economica di un Paese conta meno di quanto la maggioranza delle persone (leader economici inclusi) pensi. Politiche distruttive, come quelle del Venezuela, sono un conto. Ma politiche ordinarie, come le modifiche della normativa fiscale, anche se di vasta portata e irresponsabili, di rado hanno effetti drammatici.
Fintanto che l’economia non è colpita da shock gravi, le pose politiche non contano. Ma quando arrivano, la qualità della direzione economica diventa importantissima. Ed è quello che accade in Turchia.
Piccola digressione: anche se la qualità della direzione economica conta molto solo durante una crisi, uno potrebbe pensare che i mercati siano previdenti e tengano conto del rischio di crisi future malgestite nel valutare i prezzi di azioni e obbligazioni. Chissà perché, però, non succede quasi mai.
Succede invece che abbiamo lunghe fasi di compiacimento e rilassatezza seguite da un panico improvviso. Gli studiosi di macroeconomia internazionale amano citare la «legge di Dornbusch»: «Le crisi ci mettono più tempo di quanto si possa immaginare per arrivare, ma quando arrivano avvengono più rapidamente di quanto si possa immaginare». Quello che sta succedendo in Turchia è una classica crisi «debito e valuta», di quelle che abbiamo visto tante volte in Asia e America Latina. Dapprima una nazione diventa popolare tra gli investitori internazionali e accumula un consistente debito estero (nel caso della Turchia si tratta in gran parte di debito detenuto da grandi aziende nazionali). Poi, comincia a perdere smalto: ora, i mercati emergenti sono zavorrati dalla crescita di dollaro e tassi di interesse negli Usa. A quel punto si creano le condizioni per una crisi capace di procedere per conto proprio: fattori esterni provocano un calo della fiducia, che provoca un deprezzamento della valuta, ma il calo della valuta provoca l’esplosione del valore interno di quel debito estero, aggravando la situazione economica, portando a un ulteriore calo della fiducia e così via.
Allora, la qualità della leadership improvvisamente diventa importantissima. C’è bisogno di funzionari che capiscano quello che accade, siano in grado di elaborare una risposta e abbiamo credibilità per spingere i mercati a concedere loro il beneficio del dubbio. Alcuni mercati emergenti hanno queste cose e stanno reggendo abbastanza bene. Il regime di Erdogan non ne ha neanche una.
La tempesta che attraversa la Turchia è un’anteprima di quello che succederà con Trump? Nello specifico, no: l’America prende in prestito tantissimi soldi dal resto del mondo, ma li prende in prestito nella propria valuta, il che significa che non rischia di incorrere nella classica crisi da mercato emergente. Ma ci sono tanti modi in cui le cose possono andar male, da crisi di politica estera – quel Nobel per la pace non sembra più tanto plausibile ora, nevvero? – a guerre commerciali, e penso si possa dire con sicurezza che la squadra di Trump non è pronta per nessuna di queste possibilità.
Forse non dovrà cimentarsi con nessun problema serio. Ma se invece dovesse?
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