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La «dolce» normalizzazione di Fed e Bce

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politica monetaria

La «dolce» normalizzazione di Fed e Bce

Le due banche centrali più importanti del mondo – la Fed e la Bce – stanno condividendo la stessa strategia di politica monetaria: la “dolce” normalizzazione. Con quattro importanti differenze: la sequenza tra tassi e liquidità; il momento congiunturale delle due economie di riferimento; la trasparenza nella condotta; il rapporto con la politica. Nei giorni scorsi, in rapida successione temporale, la Fed e la Bce hanno comunicato le loro decisioni.

La Fed ha innalzato i tassi di interesse, mentre la Bce ha annunziato le future modalità di chiusura della fase straordinaria dell’azione monetaria. Due movimenti che hanno da un lato caratteristiche diverse – in America fatti in direzione restrittiva, in Europa parole in uno scenario ancora accomodante – e dall’altro appartengono da una stessa strategia monetaria, quella che possiamo battezzare della normalizzazione “dolce”.

Negli Stati Uniti nel dicembre 2015 è iniziata una manovra di politica monetaria caratterizzata da una sequenza che nella sostanza si può riassumere in “prima i tassi, poi la liquidità”. In quel mese i tassi di interesse lasciavano il pavimento del tasso zero per avviare un percorso che tre giorni fa è arrivato in trenta mesi al tetto del 2%, accompagnato da secondario minor attivismo sul mercato finanziario. La durata e le caratteristiche di tale manovra sono quelle di un lento ritorno a un orientamento normale della politica monetaria. Un orientamento è normale quando i tassi sono coerenti con una crescita economica non inflazionistica. Due i termometri che possiamo utilizzare per misurare la normalità. Il primo è un indice di Taylor, che tiene conto di un tasso di interesse reale caduto dai livelli ante-crisi del 2% a un livello attuale stimato dell’1 per cento. L’indice di Taylor ci dice che in questi trenta mesi la politica monetaria è rimasta – ed è tuttora – espansiva. In termini di punti base, la differenza tra i tassi della Fed e quelli dell’indice di Taylor era di 182 punti nel dicembre 2015, e oggi è ancora di 140 punti, dopo aver toccato nell’era Yellen anche i 220 punti di differenziale.

In parallelo, l’indice di Friedman ci dice come si muovono le grandezze monetarie – che dipendono dalla propensione al rischio di famiglie, imprese e banche – rispetto agli impulsi inviati dalle banche centrali. L’indice di Friedman inizialmente ha reagito con un ritardo di sette mesi alla svolta del dicembre 2015, con grandezze monetarie che si muovevano nella stessa direzione dei tassi di interesse, mentre la relazione normale dovrebbe essere inversa. Ed effettivamente – e lentamente – la crescita di moneta e credito si è andata stabilizzando. Anzi: con l’inizio dell’era Powell al timone della Fed – lo scorso febbraio – la crescita degli aggregati è stata decisamente conservativa. In conclusione, trenta mesi per una normalizzazione ancora in corso d’opera, quindi “dolce”.

In Europa gli ultimi trenta mesi sono stati affatto diversi, data soprattutto la differente fase del ciclo congiunturale. La Bce ha scelto una strategia di “prima la liquidità, dopo i tassi”. I tassi di interesse nominali della Bce come prestatore di fondi sono ed erano ancora schiacciati sullo zero. L’indice di Taylor ci dice che l’orientamento espansivo della politica monetaria è passato da 5 punti base fino a un massimo di 265 punti, e oggi è ancora a 207 punti. L’indice di Friedman ci conferma che è avvenuta anche la stabilizzazione della crescita monetaria. Per il prossimo anno – cioè fino all’estate del 2019 – sarà interessante verificare come procederanno da un lato le performance in termini di crescita reale e di inflazione dell’economia europea e dall’altro la dinamica delle grandezze monetarie e creditizie, mentre possiamo già dire che i tassi continueranno ad avere un orientamento espansivo, essendosi impegnata la Bce a tenerli nominalmente a zero, almeno fino a quel momento e in assenza di cambiamenti macroeconomici significativi. Quindi, anche in Europa avremo una normalizzazione “dolce”.

Le differenze però tra Stati Uniti ed Europa non mancano, e sono almeno due, oltre che alla diversa fase del ciclo economico già ricordata. La prima è nel grado di trasparenza delle due banche centrali. La Bce si impegna con annunzi vincolanti e collettivi. Le decisioni di due giorni fa sono istituzionali, e per di più assunte tutte all’unanimità. La Fed comunica semplici proiezioni, che non sono impegni, ma previsioni individuali e anonime. La seconda è nel rapporto tra le decisioni di politica monetaria e l’orientamento dell’esecutivo politico. Negli Stati Uniti la politica monetaria della Fed prende atto, e accompagna, l’orientamento espansivo a tutti i costi del Presidente Trump. In Europa la politica monetaria della Bce è destinata a piacere ai governi nazionali che hanno bisogno di una profilo moderato dei tassi – come l’Italia, sperando che ne faccia buon uso – e a spiacere invece a chi avrebbe voluto una normalizzazione meno graduale. La Bce continua con una bussola che guarda all’Europa nel suo complesso, e agli interesse di lungo periodo di tutti i cittadini dell’Unione.

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