L’Africa è una scacchiera su cui possono giocarsi opportunità di business non solo le grandi ma anche le piccole e medie imprese europee. In un’ottica non “di rapina” ma di “win win”. Il presidente Antonio Tajani, che, tornato pochi giorni fa dal Niger, ha rilanciato la sua prospettiva di un “Piano Marshall” per una crescita stabile dell’economia africana e di conferire, a Libia e Sahel, gli stessi fondi per la gestione dei flussi migratori, oggi elargiti alla Turchia.
Presidente Tajani, dopo il viaggio in Niger, Lei ha detto che serve una strategia complessiva per l’Africa. Può articolarcela in dettaglio?
Ho detto che l’Europa ha i mezzi per attuare una strategia globale di investimenti verso l’Africa sino a 50 miliardi di euro nel budget 2021-2027 che in autunno entra nella fase di definizione dei capitoli di spesa. Cinquanta miliardi che devono servire a sviluppare progetti di sviluppo nell’agricoltura, nello sviluppo di un sistema idrico efficiente, nel contrasto al cambiamento climatico, nelle infrastrutture, anche digitali, nella sanità.
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Soluzioni in cui molte nostre Pmi, italiane ed europee, eccellono. Su richiesta del presidente nigerino, abbiamo quindi riunito imprese che operano principalmente in questi settori e che hanno complessivamente un giro d’affari pari a 80 miliardi di euro. Un primo sviluppo concreto di questa iniziativa è la creazione di un Consiglio economico consultivo permanente che avrà il compito di dare seguito a questi primi incontri e contatti con le imprese europee. Non è un caso che con me a Niamey siano venute 40 imprese da sei Paesi europei: Italia, Francia, Belgio, Olanda, Spagna ed Ungheria. Per l’Italia, c’erano Enel, Confagricoltura e Coldiretti. Abbiamo fatto B2B, ci sono possibilità di joint venture interessanti.
Ma il Niger è anche tra i Paesi più poveri del mondo e, secondo le classifiche internazionali, uno dei meno trasparenti...
Certo. Ma io a Niamey ho anche visto un’azienda alimentare che ricicla totalmente i propri rifiuti; una start up, aperta da giovani ingegneri che si sono laureati in Francia, che produce droni e servizi per il loro impiego. In Africa è sempre più forte la consapevolezza che non si può vivere solo esportando materie prime. Ma, allo stesso tempo, manca, in quei Paesi, un’industria della trasformazione e della lavorazione di molte materie prime. In questo quadro, inserita in una prospettiva in cui sia chi investe sia chi ne beneficia traggano profitto, il trasferimento tecnologico e la partnership con le imprese africane possono porre le basi di uno sviluppo duraturo.
Perché il Niger dovrebbe rappresentare un “laboratorio” nei rapporti tra la Ue e l’Africa?
Il Niger, e in generale tutta la fascia del Sahel, è oggi il collo di bottiglia dei flussi migratori che si dirigono in Libia per poi imbarcarsi verso l’Europa. Tra 2014 e 2020 abbiamo investito 1 miliardo di euro nel solo Niger. Di questi, 230 milioni sono stati usati per finanziare undici progetti di cooperazione per aumentare la sorveglianza, le indagini e la lotta alle rotte delle migrazioni. Nel 2016, 330mila persone hanno attraversato il Niger per dirigersi in Europa attraverso la Libia. Nel 2017 sono scese a meno di 18mila. E nel 2018, a circa 10mila.Il Niger sta facendo un eccellente lavoro per ospitare i migranti evacuati dall’Unhcr dalla Libia, e, francamente, non è accettabile che dei 1.700 rifugiati vulnerabili riportati in Niger dalla Libia, solo alcune decine siano state accolte da pochi Paesi Ue.
Se l’approccio adottato in Niger funziona, ritengo debba essere esteso ad altri Paesi e possa essere uno degli indirizzi per la revisione degli Accordi di Cotonou, che rappresentano la cornice giuridica della cooperazione allo sviluppo tra la Ue e 79 Paesi tra Caraibi, Pacifico e Africa, di cui 48 sono gli Stati dell’area subsahariana.
Però dall’ultimo Consiglio Ue non sembrano usciti maggiori impegni dei Paesi Ue per l’Africa. Mentre l’Italia ha dato il via libera alla seconda tranche di finanziamenti alla Turchia per la chiusura della rotta balcanica.
Ribadisco un concetto già espresso: la Ue deve dare anche al Sahel 6 miliardi - in due tranche da 3+3 - ovvero la stessa cifra che ha deciso di dare alla Turchia per chiudere la rotta balcanica. I 500 milioni messi dall’Unione nel “Trust Fund” per l’Africa bastano, in buona parte a sostenere solo gli sforzi di questo Paese.
Martedì, l'economista Andrea Goldstein ha scritto, sul nostro giornale, che molti studi dimostrano come dall’Africa spesso non partano i più sprovveduti. Ma quelli che hanno studiato e hanno più opportunità di affermarsi e mandare rimesse a casa. Eppure sul fronte delle politiche attive per l’inserimento lavorativo ogni Paese fa da sé e l’Italia resta carente. Si può fare qualcosa come Ue?
Nella discussione che è pronta a entrare nel vivo su come destinare i fondi del prossimo bilancio Ue 2021-2027, il tema di sostenere le iniziative dei Paesi per finanziare l’integrazione tramite l’inserimento lavorativo dei migranti deve trovare adeguate risposte.
Come valuta la linea del governo italiano di queste ultime settimane?
L’Italia è stata a lungo lasciata sola ad affrontare il tema dei flussi migratori. Ma il fatto che, in più circostanze, diversi Paesi europei, tra cui Francia, Germania, Spagna e Portogallo, abbiano accettato di ripartirsi quote di migranti arrivati via mare, dimostra che una soluzione europea è possibile. Ma se il governo italiano continua a ritenere alleati i Paesi del gruppo di Visegrad, che rifiutano qualsiasi solidarietà europea, l’atteggiamento è quanto meno dilettantesco.
Presidente Tajani, come giudica l’intesa raggiunta mercoledì fra Trump e Juncker per “dazi zero” sulla manifattura in cambio di più soia e più gas dagli Stati Uniti?
Credo che sia un passo positivo. Ritengo che questo rappresenti la volontà di un dialogo tra i nostri due sistemi economici che sono “amici” e alleati da sempre. E devono continuare ad esserlo, perché è la sovrapproduzione cinese la nostra comune priorità.
Anche noi europei, però, applichiamo dazi nei confronti dei Paesi in via di sviluppo sui prodotti agricoli, ad esempio, per proteggere la nostra agricoltura. E poi ci stupiamo che queste economie restano fragili...
Dobbiamo sostenere l’agricoltura dei partner in via di sviluppo in tutti quei settori che non rischiano però di danneggiare anche le nostre produzioni interne. Serve equilibrio.
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