Qualche settimana fa ero in vacanza in Danimarca. Triste a dirsi, sono un nerd così irrecuperabile che, invece di pensare
a Shakespeare, i miei pensieri si sono indirizzati verso l’economia. Sono del parere, infatti, che la storia della Danimarca
sia molto interessante per tutti noi.
Certo, non posso definirmi uno specialista dell’economia danese, né di quella odierna né di quella del passato. So soltanto
quello che leggo e riesco a dedurre dai database disponibili. Di conseguenza, è come se stessi usando la Danimarca come specchio
da esibire al resto del mondo.
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Si tratta, in ogni caso, di uno specchio interessante (e di qualcosa di gran lunga più gradevole a cui pensare rispetto allo sdegno che provo per quello che accade negli Stati Uniti). In particolare, ci sono due cose che secondo me potremmo apprendere dalla Danimarca: una storia di ottimismo sulla globalizzazione, e un’altra storia di ottimismo sulla possibilità di dar vita a una società dignitosa.
Siano benedetti i produttori di formaggio
Come fa notare un sollecito spettatore nel film “Brian di Nazareth” dei Monty Python, il titolo è una metafora e non deve
essere preso alla lettera. La benedizione va estesa a tutti coloro che si occupano di prodotti caseari. Nel caso della Danimarca,
la benedizione ha funzionato.
Durante la creazione della prima economia globale, quella resa possibile dalle ferrovie, dalle navi a vapore e dal telegrafo,
il mondo sembrò biforcarsi in nazioni industrializzate e nazioni agricole che rifornivano le prime dei loro prodotti. Le nazioni
agricole – anche se in un primo momento crebbero e si arricchirono, come l’Argentina – a quanto pare finirono coll’avere la
sorte peggiore, trasformandosi in repubbliche delle banane, azzoppate economicamente e politicamente dal loro stesso ruolo.
La Danimarca, invece, non divenne una repubblica delle banane, ma una repubblica del burro. Le navi a vapore e le scrematrici
di panna alimentate a vapore permisero alla Danimarca di diventare un apprezzabile esportatore di burro (e di carne di maiale)
in Gran Bretagna, e questo le garantì una prosperità notevole alla vigilia della Prima guerra mondiale.
Un aspetto interessante di quel picco delle esportazioni è che da un certo punto di vista si trattò di produzione a valore
aggiunto, come le esportazioni delle moderne economie in via di sviluppo che fanno affidamento sui prodotti importati – solo
che, nel caso della Danimarca, furono le importazioni di foraggio per animali dall’America settentrionale a contribuire a
dare un vantaggio decisivo.
La buona notizia fu che quella propensione agricola non si rivelò un vicolo cieco. Al contrario, servì a creare le premesse
per un’eccellente performance sul lungo periodo. E, nel caso della Danimarca, la globalizzazione sembra aver avuto un ruolo
parificante, sia a livello politico sia a livello economico. Invece di portare al predominio di multinazionali straniere o
di proprietari terrieri locali, condusse al predominio delle cooperative rurali.
Perché la storia danese fu così felice? I danesi, forse, hanno avuto fortuna nel produrre quello che si è rivelato essere
un prodotto dai notevoli vantaggi. Ma in più, come i paesi asiatici sulla cresta della prima ondata di crescita dei paesi
moderni in via di sviluppo, si sono inseriti nella globalizzazione con una popolazione molto istruita rispetto agli standard
mondiali.
In ogni caso, non sono certo qui a impartire la lezione secondo cui la globalizzazione è eccezionale per tutti. Anzi, il contrario.
Il punto è che i risultati dipendono dai dettagli: un paese può produrre prodotti agricoli, essere “dipendente” sotto molti
punti di vista, e allo stesso tempo usare questo fatto come premessa per elevarsi in modo permanente nel mondo sviluppato.
Nel mondo odierno, la Danimarca riesce a essere apertissima ai commerci internazionali, pur avendo bassissimi livelli di disuguaglianza
sia prima sia dopo la redistribuzione. La globalizzazione non deve essere per forza di cose in conflitto con la giustizia
sociale. A proposito della quale…
I non-orrori del socialismo
Parecchie persone schierate a destra nella politica americana, e alcune che si professano di centro, paiono del tutto spiazzate
dall’ascesa di persone che si definiscono socialiste. L’ascesa di queste ultime, però, era prevedibile e prevista.
Ecco cosa è accaduto: per decenni la destra ha cercato di ridurre al silenzio ogni iniziativa volta ad appianare alcuni degli
effetti più ruvidi del capitalismo, per mezzo di tutele sanitarie e sostegni al reddito o qualsiasi altra cosa, urlando “socialismo!”.
Prima o poi, era inevitabile che ci fossero persone disposte a dire che, se ogni tentativo di rendere il nostro sistema meno
sgradevole si chiama socialismo, beh, allora anche loro sono socialiste.
La verità è che è davvero difficile che negli Stati Uniti vi sia chi vuole che il governo si impossessi dei mezzi di produzione,
o addirittura assuma il “controllo dei segmenti chiave” dell’economia. Quello che la gente vuole è la socialdemocrazia – quel
genere di garanzie di base nell’assistenza sanitaria e nella tutela contro la povertà che qualsiasi altro paese avanzato al
mondo fornisce.
La Danimarca, dove le entrate del fisco costituiscono il 46 per cento del prodotto interno lordo – rispetto al 26 per cento
degli Stati Uniti – è senza dubbio il paese più socialdemocratico del mondo. Secondo la dottrina conservatrice, l’abbinamento
di tasse elevate e di aiuti a “chi se ne approfitta” vanifica gli incentivi a creare posti di lavoro e il desiderio di prenderli.
Ne consegue che la Danimarca dovrebbe essere afflitta da disoccupazione di massa, non è così? In verità, gli adulti danesi
hanno maggiori probabilità di avere un posto di lavoro dei loro omologhi americani. Lavorano, in un certo senso, un numero
inferiore di ore, anche se questa potrebbe essere benissimo una scelta mirante a migliorare il welfare. La Danimarca, però,
ci fa capire che si può amministrare un welfare state con più generosità di quanto facciamo noi – e molto al di là dei sogni
più sfrenati dei progressisti americani – e ciò nonostante avere un’economia di grande successo.
In verità, mentre il Pil pro-capite in Danimarca è inferiore a quello degli Stati Uniti – in sostanza, a causa dell’orario
di lavoro ridotto –, la soddisfazione per la propria vita è considerevolmente più alta.
Macro-inefficienze
Malgrado tutte queste cose positive, nello stato danese c’è qualcosa di marcio – va bene, diciamo pure che è andato un po’
a male. Mentre la sua performance sul lungo periodo è stata eccezionale, la Danimarca non se la sta passando troppo bene dalla
crisi finanziaria del 2008, con un Pil pro-capite in notevole caduta. E sta impiegando davvero tanto tanto tempo per riprendersi.
In particolare, la Danimarca è stata distaccata parecchio dalla Svezia. Dietro a questa performance così insoddisfacente e
scadente non si nasconde un mistero. La Danimarca non ha l’euro ma, a differenza della Svezia, ha ancorato la sua valuta a
esso. Di conseguenza, condivide i problemi della zona euro.
Lasciando perdere la questione generale dei regimi dei tassi di cambio, questo deve essere per noi un monito per ricordare
sempre che la microeconomia – cose come gli incentivi di un forte welfare state – è diversa dalla macroeconomia. E che si
possono ottenere grandi risultati sul fronte micro e al contempo incasinare del tutto la propria politica monetaria.
(Traduzione di Anna Bissanti)
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