Le elezioni per il prossimo Parlamento europeo ( maggio 2019) hanno accelerato il dibattito sul futuro dell’Europa. Dopo Brexit, nessuno minaccia più di lasciare l’Unione europea (Ue). Costerebbe troppo e i vantaggi sarebbero incerti. Per dirla con Alberta Sbragia, politologa di Pittsburgh, gli stati europei sono ormai divenuti stati membri dell’Ue, cioè entità così intrecciate le une con le altre (sul piano legislativo, economico, amministrativo, culturale, sociale) da svuotare nei fatti l’opzione della “separazione dall’interdipendenza”.
Ciò vale ancora di più per gli stati membri dell’Eurozona. Così, la vecchia divisione (Ue: sì o no?) è stata sostituita da una nuova divisione (cosa fare dell’Ue?). Quest’ultima divisione, però, è tanto mobilitante quanto indefinita.
È in questo contesto che va collocato il dibattito sul futuro dell’Europa anche nel nostro Paese.
L’intervento del ministro Paolo Savona (su Il Sole 24 Ore del 6 novembre scorso) è un contributo a tale dibattito. È basato
sulla critica alle asimmetrie dell’Ue ed è accompagnato da alcune proposte per superarle. Quell’intervento, tuttavia, ha un’ambiguità
di fondo. Il ministro non chiarisce quale sia la premessa della sua critica. Ovvero se ritiene l’interdipendenza (monetaria,
soprattutto) dell’Italia una condizione necessaria ed irreversibile, oppure no. In quell’intervento, ma anche nel documento
(“Una politeia per un’Europa diversa”) che il ministro ha inviato a Bruxelles nel settembre scorso (e da me commentato il
14 ottobre su questo giornale), manca tale preliminare valutazione.
E probabilmente manca perché il governo, di cui fa parte il ministro Savona, è costituito da due partiti che non ritengono
l’interdipendenza italiana nell’Eurozona come necessaria e irreversibile. E’ vero che, oggi, gli esponenti più influenti di
quel governo hanno dichiarato di non volere “uscire dall’euro”, ma sembrano essere dichiarazioni finalizzate a rassicurare
i mercati, oltre che la maggioranza dei cittadini e delle imprese italiani che di ritornare alla lira non ci pensano proprio.
Senza il riconoscimento preliminare della necessaria e irreversibile collocazione dell’Italia nell’Eurozona, è evidente che
la porta di uscita da quest’ultima continua a rimanere socchiusa. L’ambiguità è una caratteristica diffusa tra le forze sovraniste
europee. Esse rivendicano una maggiore autonomia decisionale per gli stati, ma non spiegano come ciò possa conciliarsi con
la preservazione di un mercato unico di cui beneficiano. L’Ue dei sovranisti finirebbe per assomigliare ad una quasi-organizzazione
internazionale, dove gli stati partecipano solamente alle politiche per loro convenienti. Un’Europa come un club di clubs,
per dirla con Giandomenico Majone. E’ questo il futuro che prevede per l’Europa il ministro Savona?
Anche le forze europeiste hanno i loro problemi. Tuttavia non sono ambigue sul punto preliminare, ovvero che l’interdipendenza europea costituisce una condizione necessaria e irreversibile per gli stati membri dell’Ue, vieppiù dell’Eurozona. Su come riformare tale interdipendenza, però, non mancano ambiguità anche tra di loro. Un contributo alla chiarezza l’ha invece fornito l’appello, pubblicato su Handelsblatt il 25 ottobre scorso, di esponenti politici e culturali tedeschi (tra cui il candidato alla presidenza della CDU Friedrich Merz e il filosofo Jurgen Habermas), appello quindi sottoscritto da esponenti dell’europeismo italiano (oltre che elogiato dallo stesso ministro Savona, anche se non è chiaro perché). Per i promotori dell’appello, l’Europa integrata, in particolare il nucleo dell’unione monetaria, è il risultato di una grande conquista storica. Per preservarla occorre però stabilire cosa deve essere, abbandonando l’attitudine funzionalista al muddling through (l’adattamento giorno per giorno), ma anche l’idea che tutti i 27 stati membri condividano lo stesso progetto di integrazione. Occorre differenziare l’Ue, con alcuni paesi (quelli al centro dell’Eurozona) che si muovono verso “un’unione sempre più stretta”, senza subire i veti degli altri che la vogliono invece “sempre meno vincolante”.
L’unione sempre più stretta deve dotarsi di un suo (autonomo) sistema di difesa (militare e territoriale), conseguibile attraverso
la razionalizzazione degli apparati nazionali di sicurezza. Deve dotarsi degli strumenti fiscali necessari per tenere in equilibrio
la politica monetaria, come un bilancio dell’Eurozona per promuovere politiche anti-cicliche (in particolare l’assicurazione
europea contro la disoccupazione). Deve dotarsi di risorse e competenze per realizzare politiche redistributive, senza le
quali non si può attivare la necessaria solidarietà sociale tra i suoi stati membri e i loro cittadini. Per i promotori dell’appello,
la nuova sovranità europea (militare, fiscale, sociale) deve emergere da una decisione politica non già da un’evoluzione funzionalista.
È questa la futura Europa che prevedono anche i nostri europeisti?
Insomma, se vero che la divisione tra sovranisti ed europeisti ha caratteristiche diverse rispetto a quelle del passato, nondimeno tale diversità richiede di essere rappresentata con chiarezza sul piano politico (oltre che culturale). Piuttosto che cincischiare nell’ambiguità, non sarebbe meglio consentire ai cittadini di scegliere, il prossimo maggio, tra visioni chiare del futuro dell’Europa?
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