Se l’obiettivo dell’analisi costi-benefici (Acb) della Tav era di educare il Paese alla trasparenza nelle scelte di politica economica, ha ottenuto l’effetto opposto: screditare definitivamente il metodo, non solo per l’uso sfacciatamente demagogico fattone dal M5S, ma anche per i gravi difetti della logica con cui è stata condotta.
Qualunque impresa fa una Acb (ma non la chiama così) ogni volta che decide un investimento: verifica che i flussi monetari attesi futuri, scontati al costo del finanziamento, eccedono il costo certo dell’investimento. Idem in finanza pubblica, ma a fronte di un costo certo per la costruzione dell’opera, ci sono dei benefici non monetari (l’ambiente, la salute pubblica, la sicurezza, e così via) che sono l’essenza stessa dell’investimento pubblico. Un’analisi costi-benefici deve quindi definire in modo chiaro gli obiettivi di benessere attesi, e poi attribuire loro un valore monetario figurato attraverso i cosiddetti “prezzi ombra”. Scopo dell’Acb è quindi di rendere esplicito il costo che i cittadini pagano per il benessere sociale che uno specifico progetto può generare. Vale per la Tav, come per scuole, ospedali, caserme o strade.
L’Acb della Tav, invece, è stata erroneamente strutturata e utilizzata come analisi macroeconomica di finanza pubblica: in termini semplici, coi soldi della Tav quante scuole e ospedali si possono costruire? Una logica difettosa perché crea un cortocircuito: costruisco ospedali con i soldi della Tav? Oppure le scuole sono meglio degli ospedali? O meglio più polizia per aumentare la sicurezza? O ponti nuovi? La Acb è un’analisi parziale microeconomica e dunque può essere applicata per dare un rendiconto trasparente all’opinione pubblica dei benefici sociali del singolo progetto. Non per allocare la spesa pubblica per investimenti.
Questo errore ha portato gli estensori dell’analisi costi-benefici della Tav a risultati assurdi. Per la Tav, gli obiettivi chiaramente definiti dal progetto europeo erano la riduzione del traffico su gomma e inquinamento sulla direttrice verso la Francia (senza Tav, si stima solo l’8% su rotaia contro il 75% verso la Svizzera e 50% l’Austria), più sicurezza nel trasporto e maggiori opportunità economiche grazie a collegamenti rapidi verso la Francia.
Però, come da più parti osservato, ben 4,5 miliardi di “costi” imputati alla Tav sono minori pedaggi autostradali e accise sui carburanti per lo spostamento del traffico da gomma a rotaia. Ma poiché un obiettivo di benessere sociale è proprio ridurre l’inquinamento si arriva all’assurda conclusione che più la Tav raggiunge il suo scopo, meno conviene farla. Facile poi estendere questa logica per raggiungere conclusioni opposte, egualmente assurde. Perché non compensare i minori pedaggi con i maggiori ricavi delle imprese che costruiscono il tunnel e l’indotto? O compensare le minori accise con il vantaggio per i privati di minori tasse? O con una carbon tax sui Tir nel Nord Italia? O inserire tra i benefici i nuovi occupati per la costruzione dell’opera? E via di seguito.
Questo errore logico è esiziale e discende dagli evidenti pregiudizi degli estensori dell’analisi costi-benefici. Per esempio quando guardano alla numerosità degli incidenti ferroviari negli ultimi anni per smontare i benefici della maggiore sicurezza, un modo per non tener conto della probabilità dell’evento catastrofico (disastro Viareggio, incendio traforo del Bianco). O quando, per sminuire i benefici ambientali, ricordano che dal Frejus oggi passano 5mila veicoli al giorno contro i 300mila della tangenziale di Torino: e allora? È un non sequitur. O quando ignorano completamente le grandi opportunità che la maggiore mobilità comporta, come dimostra l’Alta velocità in Italia. Basti pensare che la distanza tra Torino e Parigi è la stessa tra Milano e Napoli, oggi coperta dal treno in 4 ore e mezza. Mentre la Lione-Parigi è già coperta in sole 2 ore, e tra Torino e Lione ci sono appena 300 chilometri.
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