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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2012 alle ore 14:17.

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Questa logica dovrebbe però far salva un'attribuzione di maggiori risorse e finanziamenti da considerare finora sacrificati, a impegni che sono invece essenziali per una ripresa e una nuova qualificazione dello sviluppo del Paese. Si deve salvaguardare una quota accresciuta e consistente di risorse, pur nella generale riduzione della spesa pubblica, per cultura e ricerca, tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Perché il contenimento della spesa pubblica e soprattutto della sua dinamica, e innanzitutto la riduzione della sua entità attuale, non comportano che non ci debba essere e non ci possa essere selezione. È molto arduo scegliere e dire: "questo sì e questo no", ma questa è la politica; la responsabilità della politica sta nello scegliere, nel dire dei «no» e nel dire dei «sì». E io credo che debbano essere detti più «sì» a tutto quello che riguarda la cultura, la scienza, la ricerca, la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio.

Qualche spunto specifico. Ritorno innanzitutto sulla ricerca scientifica, di cui ho detto qualche giorno fa in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro». L'Italia ha in campi fondamentali della ricerca tradizioni ed energie vive, dei talenti e un prestigio di cui molti, a ogni livello, nella sfera istituzionale e nell'opinione diffusa, non si rendono conto. Abbiamo dei tesori ignorati, delle capacità, un dinamismo di competenze e di passione per la scienza che vengono largamente ignorati. Parlo di talenti che operano anche fuori d'Italia: qualche giorno fa, in Quirinale, alla «Giornata per la ricerca sul cancro» c'era, fra gli altri, il professor Pier Paolo Pandolfi, un italiano che vive in America da vent'anni e da cinque dirige il Centro di Ricerca Oncologica di Harvard, uno dei più importanti al mondo, ed è venuto a dirci: voi avete tali istituti e tali talenti che dobbiamo lavorare insieme, io italiano dall'America e voi italiani in Italia.

Voglio parlare anche di quei tanti italiani che vivono e operano servendo in istituzioni di ricerca europee. Sono andato a Ginevra e ho incontrato centinaia di ricercatori italiani al Cern; sono andato a L'Aja, all'Estec, centro di ricerche e tecnologie spaziali: altre centinaia di italiani che sono andati lì anche poco dopo i vent'anni, dopo aver preso la laurea o il dottorato, e che sono chiusi tutti i giorni, dalla mattina alla sera – in luoghi che non sono Roma, che non sono belli come le nostre città – mossi non solo dalla passione per la ricerca e dall'impegno per onorare la tradizione scientifica del nostro Paese. È qualcosa che deve far riflettere profondamente, anche quando sentiamo dire: aiutateci, non solo con finanziamenti. Per esempio, i due centri che ho citato sono naturalmente finanziati dalle istituzioni europee, e noi – non ce lo dimentichiamo – siamo tra i maggiori contributori, e quindi contribuiamo a finanziare sia la ricerca spaziale, sia le ricerche del Cern; però, è giustissimo dire: "non solo questo, non solo i soldi, occorre dell'altro". Occorrono capacità operative, occorre liberarsi dal peso delle procedure burocratiche – lo ha detto bene e con forza Ilaria Capua – e anche dal peso crescente di una oramai impraticabile foresta legislativa e normativa che non fa che crescere da una settimana all'altra.

Abbiamo talenti e abbiamo istituzioni. E io mi domando – vi svelo un particolare – come sia stato possibile qualche tempo fa che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere un articolo di legge che prevedeva la immediata soppressione di 12 istituti di ricerca. Il lavoro di questo signore è finito nel cestino, perché abbiamo cercato – non è vero, ministro Profumo? – di tenere insieme gli occhi aperti. Ma è una spia di che cosa può significare la peggiore mentalità burocratica quando è chiamata a collaborare a scelte di governo, che devono invece essere libere da queste incrostazioni.

Un secondo spunto: tutela del paesaggio e del patrimonio. Tutela, cura e valorizzazione del territorio, perché questo è qualcosa che spesso – ma la signora Ilaria Buitoni lo sa benissimo, e lo sa benissimo il Fai – sfugge: si pensa solo al costruito e non si pensa al dove si costruisce, alla messa in sicurezza del territorio. Quello che stiamo vivendo in questi giorni con le alluvioni, in tante parti del Paese, ci allarma. Sono stato mesi fa, dopo le alluvioni nelle Cinque Terre, a Vernazza, e – scusate se mi ripeto, ma certe volte è inutile inventare qualcosa di diverso – ho detto lì: «Abbiamo alle spalle una lunga storia di piani per la difesa del suolo, l'ultimo del 2010, con cui si stanziava credo un miliardo; ebbene, è una lunga storia di piani, di stanziamenti via via disgregatisi, persisi per strada, non portati a compimento. Questa è la dura storia, questa è la realtà. Quante volte abbiamo aperto questo capitolo, a partire dall'alluvione del 1966 a Firenze, e poi ce ne siamo dimenticati o lo abbiamo chiuso alla meglio, abbiamo rinviato a un successivo piano quello che non eravamo stati capaci di fare, realizzando il piano precedente! E questo rischio antico si è fatto più acuto, ha assunto dimensioni diverse, forme più violente perché siamo – piaccia o no – nell'epoca del cambiamento climatico». Oggi le alluvioni non sono quelle di sempre, le frane non sono quelle di sempre, e abbiamo bisogno di un impegno ancora più forte, ancora più determinato e soprattutto operativo. E non ci siamo: non ci siamo né nella comprensione del problema né nell'azione conseguente a tutti i livelli, innanzitutto – dico – a tutti i livelli istituzionali.

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