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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2011 alle ore 07:36.

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Talvolta sentieri che, con il bel tempo, appaiono facilmente percorribili, risultano impraticabili con la bufera. Che l'Italia stia attraversando una bufera è indubbio; è incomprensibile perciò che si ostini a mantenere i vecchi percorsi dei periodi di normalità. La metafora si adatta pienamente al nostro sistema pensionistico.

Ci siamo sentiti virtuosi per avere fatto le riforme: l'età media di pensionamento è stata aumentata (sia pure con differenze poco giustificabili); il rapporto tra la pensione e la retribuzione è stato ridotto attraverso una più stretta correlazione tra contributi e prestazioni (anche qui con differenziazioni: in misura drastica per le giovani generazioni, più blanda per le generazioni di mezzo, quasi nulla per le generazioni anziane); sono stati introdotti i fondi pensione; ai più ricchi vitalizi del passato, elargiti con formula retributiva e largamente pagati non già da chi li percepisce ma dalle giovani generazioni, è stato chiesto un contributo di solidarietà. Non è questo, per dirla con alcuni ministri, il sistema previdenziale migliore d'Europa? Sarà anche, ma il fatto che tutto ciò sia ancora largamente da venire e, peggio, rischi di diventare una chimera, non è questione di dettaglio. Perché in economia non contano tanto i dati assoluti, ma il posizionamento rispetto agli altri. Ebbene, il fatto è che 'gli altri' hanno fatto riforme simili alle nostre, ma le hanno applicate da subito, senza aspettare i vent'anni che invece noi abbiamo impresso alla transizione tra vecchio e nuovo sistema (l'aumento dell'età della vecchiaia per le donne è l'ultimo esempio).

Una transizione che poteva essere una stravaganza tollerata in momenti di normalità diventa un lusso inaccettabile in momenti di crisi. Ma anche l'invocazione di un intervento europeo ha del paradossale: è stupefacente che il presidente Berlusconi, che ha fama di grande persuasore, non riesca a convincere il suo alleato Bossi e finisca per auspicare un intervento esterno, che ci costringerebbe a fare ciò che da soli siamo incapaci di realizzare. Quello che più mortifica, peraltro, è l'incapacità di comprendere l'equazione 'maggior lavoro, maggiore reddito', per il pregiudizio del lavoro come quantità fissa per cui l'occupazione di un anziano sottrae opportunità a un giovane. Un pregiudizio che va rovesciato, per costruire un mercato del lavoro inclusivo, anziché esclusivo. Certo, la crescita richiede ben altre condizioni che il completamento della riforma previdenziale. Però, l'applicazione immediata e universale del metodo contributivo, a partire, per esempio, dai 63 anni di età rappresenterebbe un passo importante. Segnerebbe l'imbocco del sentiero giusto per un tempo da lupi.

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