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La Cina a sorpresa svaluta il renminbi

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la frenata di pechino

La Cina a sorpresa svaluta il renminbi

TOKYO - Per alcuni la Cina è entrata di diritto nelle “guerre valutarie”, per altri si prepara a dare più voce in capitolo alle forze di mercato allentando il suo dirigismo. Per quanto paradossale, non è impossibile che siano vere entrambe le ipotesi, dopo che ieri le autorità cinesi hanno pilotato a sorpresa la maggiore svalutazione giornaliera dello yuan da quasi due decenni - portandone il cambio ufficiale ai minimi da circa tre anni nei confronti del dollaro - con una mossa finalizzata con tutta probabilità a sostenere l'economia reale (ed in particolare le esportazioni) e a combattere le pressioni deflazionistiche.

Il “midpoint” (punto medio nei confronti del quale è consentita una oscillazione giornaliera massima del 2%) è stato portato a 6,2298 da 6,1162 di lunedì, con un livellamento immediato dell'1,9%. Sabato scorso era stato reso noto che l'export cinese è sceso dell'8,3% a luglio rispetto a un anno prima e risulta in contrazione (sia pure limitata allo 0,8% in termini di dollari) nei primi sette mesi di quest'anno: notizia che si cumula il calo dei prezzi alla produzione e con nuovi segnali di debolezza della domanda interna.
La banca centrale ha avvertito che si tratta di un deprezzamento “una tantum” nel quadro di un nuovo sistema di gestione dei cambi che darà d'ora in poi più peso alle forze di mercato, con un fixing ufficiale che rifletterà la precedente chiusura del trading e la dinamica di domanda e offerta, e uno scenario di tendenziale unificazione futura dei cambi onshore e offshore. Ma non sarà questa l'interpretazione accettata da tutti nel mondo: al Congresso Usa, in particolare, sembrano destinate a riaccendersi le polemiche contro le cosiddette “svalutazioni competitive”.

D'altra parte, il mercato ha esercitato negli ultimi tempi pressioni più ribassiste che rialziste sullo yuan, nel contesto del rallentamento della crescita cinese, della prospettiva di un rialzo dei tassi Usa e del tendenziale deprezzamento di varie divise di Paesi emergenti. E ieri lo yuan è sceso fino a 6,379 (-2,6%) sul mercato offshore di Hong Kong, contro il -1,8% a 6,3231 a Shanghai. Secondo Matteo Paganini, Chief Analyst DailyFX, «Pechino è entrata di diritto all'interno del quadro di guerra valutaria dal quale gli unici a stare lontano sono Usa e Gran Bretagna, almeno in maniera ufficiale»: la mossa di ieri «trasmette al mercato il messaggio secondo cui la strada dello yuan non dovrà essere considerata solo al rialzo» e non si può escludere «ulteriori tagli dei tassi e ampliamenti della banda di oscillazione nei mesi a venire». Per Tao Wang di Ubs «è difficile che il governo lascerà d'ora in poi ciecamente al mercato la guida dei tassi di cambio, perché questo potrebbe essere destabilizzante. Più probabile un approccio relativamente cauto: sarà importante vedere cosa accadrà nei prossimi giorni». Così l'analista di Ubs finisce per intravedere uno yuan più debole, intorno a 6,5 sul dollaro a fine 2015 (contro la sua precedente previsione di 6,3) e a 6,6 alla fine dell'anno prossimo.

Sui mercati valutari asiatici si sono create tensioni, con ribassi per il won sudcoreano, il dollaro di Singapore e quello australiano. La Borsa di Tokyo, dopo un avvio positivo, ha cambiato direzione orientandosi in ribasso per i timori sulla stabilità della crescita cinese, visto che la nuova iniziativa delle autorità di Pechino potrebbe finire per favorire fughe di capitali. Anche i mercati azionari europei e americani hanno accusato il colpo, sulla doppia ansietà relativa a economia cinese e rischio guerre valutarie. Come successo dopo il recente crollo della Borsa di Shanghai, l'interventismo governativo viene giudicato da alcuni analisti come dettato dal panico. In quest'ultimo caso, si tratta di un provvedimento in apparente e relativa contraddizione con la politica che intende fare dello yuan una valuta internazionale con un crescente peso nelle transazioni cross-border e un profilo di “valuta di riserva” presso organismi internazionali. Secondo l'altro filone interpretativo, sarebbe una mossa non tanto dettata dalla necessità di sostenere l'export, quanto preliminare a una maggiore liberalizzazione del sistema del cambio in vista del futuro ingresso nel “basket” dei diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale. L'Fmi ha rinviato almeno a settembre 2016 l'inclusione dello yuan e dato una valutazione di tenore misto sugli sforzi finora attuati da Pechino per dare più voce al mercato nella fissazione del livello dei cambi (d'altra parte, aveva riconosciuto a maggio che non era più sottovalutato). In sintesi, Pechino ha quindi varato una mossa astuta che combina una svalutazione pilotata di carattere straordinario a una maggiore apertura al mercato.

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