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La guerra non dichiarata delle valute

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tassi e cambi

La guerra non dichiarata delle valute

Due bersagli con un colpo solo: è il cosiddetto attacco doppio - «a forchetta» - negli scacchi, ma è anche la mossa a sorpresa che la banca centrale cinese (Bpc) ha deciso di attuare, introducendo, attraverso una svalutazione, una nuova politica dei cambi del renminbi, più coerente agli andamenti del mercato. Se la doppia dichiarazione d'intenti verrà rispettata – la svalutazione è una tantum, e la politica del cambio rifletterà l'andamento del mercato – la banca centrale cinese otterrà anche un doppio obiettivo: stimolare nel breve periodo l'economia cinese, e nel contempo accreditare il ruolo del renminbi come valuta mondiale. Con una terza ricaduta: la politica monetaria espansiva cinese rappresenterà un ulteriore fattore di incertezza sul percorso di normalizzazione dei tassi di interesse mondiali.

Ieri l'annuncio inatteso della banca centrale cinese di modificare la propria politica del cambio è stata subito battezzata come l'inizio di una battaglia nel più ampio scenario della cosiddetta guerra delle valute. Ma quale è la logica dell'attacco doppio che lega la battaglia di breve periodo con il più lungo orizzonte della guerra valutaria?

È una logica in cui le scelte politiche del partito comunista cinese sono la stella polare che guida le decisioni della Bpc. Infatti non bisogna mai dimenticare la natura istituzionale dell'attore della politica monetaria cinese: è una banca centrale generalista, priva cioè di un mandato specifico. Sotto questo punto di vista La Bpc ha una fisionomia che la fa assomigliare molto alla banca centrale americana (Fed).

Entrambe le banche centrali hanno infatti un mandato generalista, in cui non viene individuato un obiettivo specifico, su cui misurare le capacità del banchiere centrale. Nel caso della Bpc - come pure per la Fed - il mandato è quello di mantenere il valore della moneta ed allo stesso tempo promuovere lo sviluppo economico. Il mandato generico è un fattore di debolezza delle banche centrali, in quanto non avere “le mani legate” da una finalità specifica aumenta i rischi che la banca centrale sia uno strumento completamente in mano agli obiettivi della politica. Nel caso della Bpc, la guerra valutaria è un strumento politico di medio termine, per ottenere un obiettivo dichiarato: fare diventare il renminbi una valuta di riserva mondiale. Essere una valuta di riserva può comportare dei vantaggi notevoli per il Paese che la emette; ne sanno qualcosa gli Stati Uniti, che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, hanno visto consolidarsi il ruolo del dollaro come valuta di riserva. Se una moneta è valuta di riserva, la sua domanda aumenterà, consentendo al Paese di emissione di aumentare la quantità di passività a rendimento zero in circolazione. Quanto più l'aumento di passività a tasso zero è coerente con gli obiettivi macroeconomici del Paese di emissione, tanto meglio sarà per il Paese in questione; in ogni caso, modificando i tassi di interesse la banca centrale del Paese di emissione ha la possibilità di fronteggiare le oscillazioni della domanda della moneta di riserva, tipicamente a suo vantaggio. La Cina vuole che il renminbi diventi una valuta di riserva.

Ma il cammino è lungo, e passa tipicamente da una condizione necessaria, ancorché non sufficiente: il valore di una moneta di riserva deve essere determinato sul mercato dei cambi, e non manovrato dalla banca centrale. È un cammino che la Bpc ha iniziato nel 2005, quando il tasso di cambio del renminbi passò da fisso a manovrato. Da quel momento il livello del renminbi per dieci anni si è progressivamente rivalutato, fino ad arrivare lo scorso anno ad una quota ritenuta dal Fondo Monetario Internazionale coerente con i valori espressi dal mercato. La dichiarazione suscitò gioia nei cinesi e mal di pancia in alcuni ambienti americani, perché la guerra di valute è affare politico non solo in Cina.Ieri un altro passo è stato compiuto, se le dichiarazioni della Bpc saranno seguite dai fatti: il cambio manovrato del renminbi sarà sistematicamente coerente con i valori espressi sui mercati valutari. Quindi una mossa coerente con una strategia di medio periodo; ma allora perché a sorpresa? La sorpresa viene da fatto che ci si attendeva una battaglia monetaria, intesa come espansione quantitativa, ma non giocata attraverso lo strumento del tasso di cambio.

Oggi la Cina sta affrontando una doppia criticità macroeconomica: un rallentamento della crescita, unita a segnali di instabilità finanziaria. In questi casi, abbiamo oramai imparato che la politica monetaria moderna tende ad essere espansiva, per evitare guai peggiori. Poi c'è un bivio, che riguarda il riordino dell'eccesso di finanza, sia esso nelle banche, nelle imprese, o nello stato. Da un lato c'è la soluzione “svedese”, che riporta l'economia su un sentiero di crescita regolare e di stabilità finanziaria, attraverso una ripulitura dell'eccesso di finanza. Dall'altro lato c'è la soluzione “giapponese”, che invece non implica il riordino finanziario. Finora la Bpc appare più vicina al modello giapponese: in aprile salvataggio del debito pubblico locale, ieri una svalutazione del tasso di cambio. Un attacco valutario doppio, con vantaggi di breve e di medio periodo, almeno dal punto di vista cinese. Per i mercati mondiali, invece, una ombra in più sul cammino verso la normalizzazione dei tassi di interesse e della politica monetaria. Essendo l'ombra cinese, occorre solo augurarsi che la proiezione di rischio sistemico non corrisponda alla sua reale entità.

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