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Teheran pronta a «inondare» i mercati con il suo greggio

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Lo stop aLLE SANZIONI contro l’iran

Teheran pronta a «inondare» i mercati con il suo greggio

Il rimbalzo del petrolio ha avuto vita breve. I fondi, dopo i riacquisti di giovedì, hanno già ripreso a vendere schiacciando le quotazioni del barile ancora più in basso, a nuovi minimi da dodici anni. La soglia psicologica dei 30 dollari - che prima il Wti e poi il Brent avevano violato solo brevemente nei giorni scorsi - stavolta ha finito per cedere.

E il greggio del Mare del Nord ha fatto addirittura una puntata sotto «quota 29», a 28,82 dollari per la precisione. La prima scadenza contrattuale, che adesso è marzo, ha poi chiuso a 28,94 $/barile, in ribasso del 6,2 per cento. Il Wti per febbraio, dopo essere scivolato fino a 29,13 $, si è invece attestato a 29,42 $/bbl (-5,7%).

Il nuovo affondo sembra legato agli ultimi sviluppi del negoziato con l’Iran. Il rapporto finale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha confermato che Teheran ha tenuto fede agli accordi sul nucleare sottoscritti a luglio. I tempi si sono rivelati più stretti di quanto gli analisti avessero previsto e le sanzioni internazionali sono state ufficialmente revocate. L’Iran non aspetta altro per ricominciare a vendere liberamente il suo greggio. Ma per il mercato, tuttora gravato da un eccesso di offerta superiore a un milione di barili al giorno, si tratta di una prospettiva inquietante, che rischia di verificarsi, come dice Barclays, «da due a quattro mesi prima di quanto noi e il resto del mercato avessimo inizialmente pensato».

«La revoca delle sanzioni non poteva arrivare in momento peggiore per i mercati petroliferi - rincara Commerzbank - Potenzialmente potrebbe spingere i prezzi ancora più in basso».

Il Governo iraniano ha ripetuto più volte di essere in grado di aumentare la produzione di greggio - oggi scesa a 2,7 milioni di barili al giorno dai 3,6 mbg del 2011, prima delle sanzioni, e 4 mbg nel 2008 - di 500mila bg nel giro di poche settimane e di altrettanto in sei mesi. Dopo anni di sanzioni che potrebbero aver danneggiato i giacimenti, Teheran forse non riuscirà ad essere così veloce come spera. Ma la previsione media di 12 analisti ed economisti interpellati da Bloomberg è comunque per un incremento di produzione di 100mila bg nell’immediato e 400mila bg dopo sei mesi.

Le esportazioni iraniane, inoltre, potrebbero aumentare molto più in fretta. Teheran ha infatti 22 mega petroliere ancorate al largo delle sue coste: si tratta di Very large crude carriers (Vlcc), capaci di trasportare 2 milioni di barili di greggio ciascuna, e 13 sono almeno in parte piene. Gli acquirenti potrebbero non essere così difficili da trovare, specie tra i vecchi clienti, in India e in Europa (l’Italia era tra i maggiori compratori di greggio iraniano). Ma per riconquistarli Teheran dovrà probabilmente offrire condizioni più vantaggiose dei concorrenti, che per via della qualità del greggio sono principalmente l’Iraq e la Russia: una strategia che potrebbe portare a nuovi sconti e pressioni ancora più forti sul prezzo del barile, che nel giro di un anno e mezzo sul mercato dei future si è già ridotto di due terzi, ma che sul mercato fisico è oggi in molti casi ancora più economico: il 40% dell’offerta globale è costituita da greggi di qualità pesante, meno pregiati del Brent e del Wti, i cui prezzi fanno da riferimento internazionale, oppure sono estratti in luoghi remoti, che richiedono alti costi di trasporto per raggiungere i consumatori. Il loro prezzo di conseguenza è più basso. Alcuni greggi molto pesanti, come il messicano Maya, oggi valgono già meno di 20 dollari, quelli estratti dalle oil sands canadesi si vendono per 10-15 $/barile.

Senza dubbio le quotazioni del barile sono ormai arrivate a livelli insostenibili per la gran parte dei produttori, compresi quelli che estraggono shale oil negli Stati Uniti, individuati dall’Opec come l’anello debole del sistema, quello che avrebbe dovuto arrendersi di fronte alla caduta dei prezzi. I frackers e ancora di più i loro finanziatori - banche, fondi di private equity e tutti gli investitori che per anni hanno comprato a piene mani azioni ed obbligazioni spazzatura - hanno dimostrato un’incredibile resistenza e capacità di adattamento. I costi estrattivi tuttavia, pur essendo crollati, restano troppo alti per resistere con il petrolio sotto 30 dollari: oggi in media sono di 47 $/barile, afferma un recente studio di Wells Fargo, che tra le banche americane è quella più esposta al settore energetico (e comincia a scontarne le conseguenze, con un aumento degli accantonamenti per crediti deteriorati da 703 a 831 milioni di dollari nel terzo trimestre). Un’analisi di AlixPartners indica che nell’area di shale più a buon mercato, quella di Niobrara, occorrono comunque almeno 32,50 $/barile.

La drammatica scelta di Bhp Billiton, che ieri ha svalutato per 7,2 miliardi di dollari i suoi asset nello shale americano, potrebbe indicare che i nodi stanno davvero arrivando al pettine. Anche Goldman Sachs, che era stata tra i primi a prefigurare il rischio di caduta del petrolio a 20 dollari, adesso dice che di aspettarsi un “bull market” a fine anno: i prezzi sono scesi abbastanza da indurre ad «aggiustamenti dei fondamentali in grado di ribilanciare il mercato».

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