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Da Big Oil ai Petrostati, passando per lo shale: quando petrolio…

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Da Big Oil ai Petrostati, passando per lo shale: quando petrolio fa rima con debito

  • –di Sissi Bellomo

I debiti stanno diventando la preoccupazione numero uno per l’industria petrolifera. Il problema - sia pure con implicazioni di rischio ben diverse - è condiviso da quasi tutti i protagonisti del settore: dai piccoli operatori dello shale oil americano, sempre più spesso insolventi, alle Major, che solo nel primo trimestre di quest’anno hanno aumentato di un terzo le passività, fino ai Petrostati.

Il fardello delle compagnie

Le quindici maggiori compagnie nordamericane ed europee avevano debiti netti per 383 miliardi di dollari alla fine del primo trimestre, in aumento di ben 97 miliardi rispetto a un anno prima, calcola il Financial Times, Il fardello è in gran parte sulle spalle di Royal Dutch Shell, il cui debito sfiora 70 miliardi di dollari, dopo essere quasi triplicato da fine 2014, anche per via dell’acquisizione di Bg Group. Per la compagnia anglo-olandese - che dalla fine della Second Guerra Mondiale non taglia i dividendi - la leva è arrivata al 26%, dal 14% di un anno fa.

I debiti sono lievitati anche per le altre Major, che hanno approfittato dei tassi di interesse ridotti e del recupero delle quotazioni del greggio per mettere fieno in cascina, a costo di vedersi abbassare il rating: ExxonMobil, con debiti saliti in un anno da 27,6 a 38,3 miliardi, è stata da poco privata del privilegio della «tripla A», il massimo giudizio sul credito, da parte di Standard & Poor’s.

Big Oil ha grandi risorse e non si vedrà chiudere le porte dalle banche, come invece sta accadendo agli operatori dello shale oil. Questi ultimi, dopo aver accumulato negli anni oltre 200 miliardi di dollari di debiti, non riescono più a raccogliere denaro: quest’anno si conta una sola emissione di junk bond - quella da 200 milioni effettuata la settimana scorsa da Parsley Energy - mentre ci sono già oltre 40 casi di bancarotta.

Anche per le Major tuttavia il gioco rischia di farsi pericoloso. Se il petrolio a 50 dollari ha migliorato i flussi di cassa, non è tuttavia un livello di prezzo sufficiente a superare del tutto le difficoltà. E un’eventuale nuova fase di ribassi, con debiti più elevati, rischia di imporre cure dimagranti ancora più drastiche.

Le emissioni dei Petrostati

I Paesi produttori di petrolio, piccoli e grandi, sono intanto anch’essi a caccia di liquidità. La settimana scorsa, per la prima volta da tre anni, la Russia è tornata a collocare titoli di Stato all’estero raccogliendo 1,75 miliardi di dollari, mentre il Qatar ha emesso obbligazioni per 9 miliardi, un record storico in Medio Oriente, dopo che solo un mese prima erano stati gli Emirati Arabi Uniti a stupire, con 5 miliardi di dollari raccolti da Abu Dhabi. Il crollo del greggio ha spinto persino l’Arabia Saudita a riaffacciarsi sul mercato dei capitali: dopo un prestito dalle banche, adesso avrebbe allo studio anche un bond da piazzare a investitori internazionali.

Barili ai creditori

Sono tuttavia altri i Petrostati per cui i debiti sono diventati un incubo: Paesi che in passato avevano ceduto in anticipo il proprio greggio per finanziare investimenti o rimpinguare finanze statali già disastrate e che oggi, con la caduta del prezzo del barile, si ritrovano a consegnare gran parte della produzione ai creditori.

Tra i casi più drammatici c’è quello dell’Angola, ormai “espropriata” secondo Reuters di quasi tutto il suo greggio. Il Paese, che estrae 1,8 milioni di barili al giorno, dal 2010 ha ricevuto dalla Cina prestiti per 25 miliardi di dollari da ripagare in greggio (l’ultima tranche, da 5 miliardi, è stata negoziata solo a dicembre). Inoltre, deve cedere parte della produzione ai partner stranieri con cui ha sviluppato i giacimenti. Risultato: in febbraio Luanda sarebbe riuscita a tenere per sè soltanto un carico di petrolio, su oltre 50 spediti all’estero.

Ricchi e poveri all’Opec

Le sue difficoltà sono condivise da altri Paesi dell’Opec, altrettanto fragili: una circostanza che basta da sola a giustificare le spaccature tuttora presenti in seno all’Organizzazione, che si riunirà giovedì a Vienna. La strategia saudita, volta a far crollare il prezzo del greggio per sconfiggere la concorrenza, ha infatti provocato danni collaterali enormi per alcuni membri dell’Opec.

Angola, Venezuela, Nigeria, Iraq e Kurdistan devono ripagare 30-50 miliardi dollari di debiti quest’anno, per cui - secondo stime Reuters - potrebbero servire fino a 3 milioni di barili al giorno di export. Col petrolio a 120 $ ne sarebbe bastato un milione.

Il Venezuela - come l’Angola, ma anche la Russia - è superindebitata con i cinesi, oltre a rischiare un imminente default sui titoli di Stato. Dal 2007 ha ricevuto da Pechino 50 miliardi di dollari in cambio di future forniture di greggio e quest’anno il pagamento ammonta a circa 700mila barili al giorno, ha detto di recente il presidente Nicolas Maduro, ossia quasi un terzo della sua produzione totale.

Oltre che con la Cina, l’Ecuador tra il 2009 e il 2015 si è indebitato con la Thailandia e ora si ritrova a dover restituire circa 8 miliardi di dollari sotto forma di petrolio. Iraq e Nigeria i debiti ce li hanno invece soprattutto con le compagnie straniere (non a caso Baghdad sta cercando di rinegoziare le condizioni contrattuali), mentre il Kurdistan iracheno ha pre-venduto tutta la sua produzione, di oltre 500mila bg, alle società di trading Vitol e Petraco e alla Turchia.

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