Il Robo-Advisor. Vale a dire: il robot consulente finanziario. Un fenomeno ancora poco conosciuto in Italia. Eppure in crescita. Negli Stati Uniti, secondo i più recenti calcoli, i consulenti automatizzati online attualmente gestiscono circa 600 miliardi di dollari. Una cifra destinata ad aumentare. Le previsioni, infatti, indicano che nel 2020 gli asset under management dei software dovrebbero valere intorno ai 2.000 miliardi. Non solo. Nel 2014 le start up di settore hanno raccolto, sempre negli Usa, circa 290 milioni di fondi dai venture capital. E la cifra, lo scorso anno, dovrebbe essere raddoppiata. Insomma: la crescita del fenomeno è nei numeri.
Nella stessa Europa e nel Belpaese, come hanno mostrato anche gli incontri organizzati sul tema in Borsa Italiana durante Tol-expo, aumenta l’interesse per il Robo-Advisor. Un fenomeno il quale, pur comprendendo tipologie di strumenti spesso molto differenti tra di loro, può riassumersi come la creazione di soluzioni software in grado da un lato di definire il profilo di rischio dell’utente; e, dall’altro, di creare un asset allocation che, tenendo in conto proprio la profilazione del risparmiatore, offre il maggiore rendimento. Il tutto, seppure in diversi casi non è proprio così, senza l’intervento dell’uomo e con un forte abbattimento dei costi per il risparmiatore.
È inevitabile che, di fronte alla nuova frontiera descritta, le prospettive e le opportunità siano molteplici. Così come gli eventuali problemi e rischi. Per questo il Sole24ore ha istruito un processo ai Robo-Advisor con i capi d’accusa e di difesa.
La mancata interazione con il consulente umano
ACCUSA: La mancanza di un soggetto umano, quale consulente, impedisce di comprendere fino in fondo le reali esigenze del risparmiatore. Sia sotto il profilo della sopportazione del rischio che dei suoi veri obiettivi. In tal senso , ad esempio, diversi Robo-Advisor non pongono al risparmiatore domande quali la seguente: fatto 100 il tuo capitale quanto è la quota che deve essere comunque garantita anche nel suo valore nominale? Vale a dire: i questionari, pur studiati con le maggiori attenzioni, non possono sostituire il colloquio tra due esseri umani dove, tra le altre cose, è rilevante la prossemica.
DIFESA: Il consulente umano, è stato ampiamente dimostrato, incorre in molteplici errori: dalla sovrastima di determinati dati fino all’eccesso di confidenza nelle proprie scelte. Certo: si tratta di sbagli che la finanza comportamentale ha studiato e analizzato a fondo. Quindi potrebbero, a fronte di una debita preparazione del consulente, essere superati. «Al di là di ciò - sottolinea Raimondo Marcialis ceo di McAdvisory - nell’ambito dei servizi finanziari bisogna, in realtà, difendersi proprio dai comportamenti dei consulenti. I quali, nella prassi, spesso vengono formati per gestire la relazione personale piuttosto che la correttezza tecnica nelle scelte di asset allocation».
Conflitti d’interesse
ACCUSA: Uno dei classici temi a favore del Robo-advisor è quello legato al potenziale conflitto d’interesse. Vale a dire: il consulente può in ipotesi, soprattutto se appartenente ad una rete di un’istituzione che ha una fabbrica prodotto, essere sottoposto a pressioni affinché indirizzi il risparmiatore verso un determinato prodotto. Con il Robot-advisor, che di fatto è un software e sfrutta soprattutto le gestioni passive (Etf), questo elemento sarebbe destinato a scomparire. La considerazione è debole. In realtà non è la presenza, o meno, di una soluzione automatizzata che elimina il potenziale conflitto d’interesse. Il Robot-advisor, se di proprietà di un’istituzione indipendente, non avrà il rischio del potenziale conflitto d’interesse. Nel momento, invece, in cui appartenesse ad una società che «costruisce» ad esempio fondi d’investimento il potenziale conflitto d’interesse si presenterebbe ugualmente.
DIFESA: Il Robo-advisor «modifica l’approccio di fondo dell’asset allocation», afferma Paolo Sironi, Thought Leader Wealth Management FinTech di Ibm. «Il Robo-Advisor, da un lato eliminando il marketing di prodotto e dall’altro passando direttamente alla gestione di portafoglio, pone l’accento sugli obiettivi del risparmiatore». Cioè: «Non c’è la spasmodica ricerca dell’extra rendimento nel breve periodo bensì la valutazione dei “goal” di lungo periodo quale, ad esempio, la pensione». In tal senso il focus non è più su prodotto e quindi «il potenziale conflitto d’interessi diminuisce notevolmente».
Asimmetria tecnologica
ACCUSA: La creazione di questi Robo-advisors può richiedere poche quantità di denari. Ma, allo stesso tempo, una società può investirci anche molti denari. Con il che la potenza di calcolo dei computer, la loro sofisticatezza e performance aumentano notevolmente. Nei fatti si crea un’asimmetria tecnologica a favore delle società che hanno maggiori soldi da investire nelle tecnologie. Il tutto a svantaggio di chi non dispone di simili somme di denaro. E con buona pace di chi richiama l’automazione della consulenza anche per sostenere la maggiore «democratizzazione» della finanza.
DIFESA: Chi più investe più ha diritto di potere sfruttare al meglio i suoi impieghi. In un mercato, ovviamente all’interno delle regole fissate per il suo funzionamento, gli operatori che hanno avuto la possibilità (e l’abilità) di creare sistemi automatici in grado di funzionare con maggiore efficienza hanno il
diritto di potere sfruttare questo loro «atout». Certo, può crearsi l’asimmetria operativa. Tuttavia, in questo caso il problema non è di chi è riuscito ad andare maggiormente in avanti. Piuttosto di chi, invece, è rimasto indietro. Inoltre, non si può fermare l’innovazione tecnologica. Chi vuole limitare questi fenomeni è contro il progresso.
La standardizzazione dei modelli
ACCUSA: In teoria le soluzioni matematiche e tecnologiche, alla base dei Robo-advisor, possono essere le più sofisticate. Nella realtà la grande parte di questi consulenti automatici online sfruttano ancora impostazioni ormai «obsolete». Ad esempio usano a piene mani il modello di Markowitz. Quest’ultimo, in parole semplici e senza pretesa di completezza, da un lato analizza statisticamente le serie storiche degli asset per individuarne il probabile rendimento; e, dall’altro, studia le correlazioni tra gli stessi asset e quindi il grado di rischio dei medesimi (maggiore è la correlazione e più alto è il «pericolo»). L’obiettivo finale è quello di trovare i portafogli che massimizzano il rendimento e abbattono il rischio. Ebbene: diversi esperti sottolineano che, soprattutto con riferimento alla ricerca del maggiore yield, l’approccio non è efficiente.
DIFESA: L’idea che i modelli sfruttati dal Robo-advisor siano «fermi a Markowitz - dice Marcialis -è errata. Certo: possono esserci dei sistemi che si trovano in una simile situazione. Questo però non elimina il fatto che, da una parte, soluzioni più efficienti sono state da tempo sviluppate; e, dall’altra, che potranno essere sfruttate nei consulenti automatizzati». «È vero - aggiunge Sironi- che i Robot advisor spesso sono banali. C’è ancora molta strada da fare. Tuttavia bisogna capire che non si tratta solamente di automazione e digitalizzazione dell’operazione. Ci deve essere anche» molta finanza. «Dalla simulazione di portafogli fino alla creazione di scenari probabilistici. Insomma: una realtà ancora tutta da costruire e che offre molte opportunità». Inoltre, aggiunge Luca Barillaro,«l’approccio che dovrà realizzarsi è quello del binomio uomo-macchina. Questo è superiore ai singoli fattori che lo compongono. Da alcuni anni è stata mutuata dalla disciplina “advanced chess” (scacchi avanzati) l’idea di affiancare alla disciplina ed alla freddezza del robot la discrezionalità e l’originalità dell’uomo. Questo permette, tra le altre cose, di coprire i momenti di mercato che le macchine non riescono ad analizzare»
ACCUSA: Le considerazioni sopra indicate hanno la loro validità. Tuttavia la storia della finanza insegna (basta ricordare cosa è successo con i modelli per definire il rischio sui mutui subprime negli Stati Uniti) che l’industria di settore tende alla standardizzazione verso il basso. Vale a dire: l’importante non è tanto assicurarsi che le formule matematiche siano realmente efficienti; oppure che ci sia l’interazione tra uomo e macchina per avere sistemi maggiormente efficaci. L’obiettivo più rilevante è sempre stato, e sempre sarà, uno solo: riuscire a fare la maggiore quantità di soldi dai soldi. In un simile contesto la spinta verso l’automazione crea molti più rischi di quanto non accada con l’uomo al centro del «palcoscenico».
Il rischio sistemico
ACCUSA: I modelli matematici, e più in generale l’approccio quantitativo, sfruttano nelle loro strategie soprattutto gli strumenti «passivi». Ad esempio: gli Etf. Questa situazione può creare dei rischi sistemici. Secondo Eric Scott Hunsander il fondo passivo Us Vanguard, nel 2005, possedeva oltre il 5% di sole tre società dell’S&P 500. Attualmente il numero delle società è arrivato a 468. Per carità: nulla di illegale. Tuttavia appare chiaro che nel momento in cui la gestione passiva di Vanguard, con una sola mossa, viene modificata l’impatto sull’indice è notevole ed amplificato. Con il che: più l’approccio quantitativo aumenta e più i problemi per la stabilità in sé del sistema crescono.
DIFESA: «Oggi è già così senza i Robo-advisor - dice Sironi-. L’offerta dell’Asset Management è spesso monocorde. Non di rado basata sugli stessi benchmark. Quindi il problema non è legato alla consulenza automatizzata». Peraltro i Robot-advisor «non fanno trading. L’unica attività è il ribilanciamento, di solito mensile, del portafoglio». Oltre poi al cosiddetto Tax loss harvesting che «richiede ore al consulente individuale».
La black box
ACCUSA: Il Robo-advisor, nella sua presentazione esteriore, appare spesso di facile utilizzo e comprensione. Le pagine web degli operatori che offrono la consulenza automatizzata sono semplici da gestire e navigare. Il che, ovviamente, non è un problema in sé. Anzi! La questione, tuttavia, è più complessa di come appaia. Il risparmiatore, infatti, nulla conosce rispetto ai complicati modelli matematici e statistici usati per creare l’asset allocation. Di conseguenza la situazione che può crearsi è la seguente: il cliente pensa di gestire una situazione che, in realtà, non comprende e non capisce. Insomma: si crea il fenomeno della cosiddetta «black box» (scatola nera)
DIFESA: Non è così rilevante conoscere a fondo i meccanismi di come si ottiene un risultato. L’importante è potere controllare che, ad esempio, il rendimento sia quello previsto. Oppure che si sia nella corretta strada per raggiungere l’obiettivo di lungo periodo. Peraltro anche il consulente umano, spesso, utilizza metodologie matematiche che non sono spiegate al cliente. Vero! E però, in questo caso, il risparmiatore può interloquire con il consulente stesso. E se del caso chiedere spiegazioni.
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