Finanza & Mercati

Le colpe di Mps, la linea dura della Bce: così la crisi…

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LA QUESTIONE BANCARIA

Le colpe di Mps, la linea dura della Bce: così la crisi è diventata ingestibile

Danièle Nouy, direttrice dell'organo di supervisione bancaria della Bce
Danièle Nouy, direttrice dell'organo di supervisione bancaria della Bce

È passato poco più di un decennio da quando la Banca d’Italia di Antonio Fazio, in nome della stabilità, gestiva le crisi bancarie dietro le quinte mettendo troppo spesso la polvere sotto il tappeto. Eppure sembra trascorso un secolo. Oggi l’approccio calvinista della nuova Vigilanza, in capo alla divisione della Bce guidata da Danièle Nouy, è diametralmente opposto: da “flessibilità” e riservatezza, si è passati a rigidità e pubblicità. Senza preoccuparsi delle conseguenze. Il caso del Montepaschi lo dimostra: la banca senese ha mille problemi, nessuno lo nega, ma la Bce ha avuto un ruolo determinante nel rendere questi problemi ingestibili. E nel creare un effetto a catena in tutto il sistema bancario italiano

Lungi dal rimpiangere l’epoca di Fazio, ma i fatti parlano chiaro. In questi mesi Francoforte ha prima imposto una cura da cavallo al Montepaschi, sulla base solo di scenari avversi ipotizzati negli stress test. Poi ha indicato una data irremovibile, cioè il 31 dicembre 2016, per risolvere tutti i problemi. Poi ha negato qualunque proroga. Infine, una volta chiaro che l’intervento statale sarebbe stato necessario, ha deciso di cambiare tutti i parametri di calcolo e di accrescere l’aumento di capitale di Mps da 5 a 8,8 miliardi.

Nessuno critica queste decisioni, che partono da una situazione di Mps davvero degenerata. Ma qualche domanda bisogna porsela: è giusto che la Vigilanza imponga misure draconiane e scadenze irremovibili, senza pensare alle conseguenze che le sue decisioni hanno sull’intero sistema e prima ancora sulla salute del vigilato? È giusto che tutti i minimi dettagli siano resi pubblici, incluse le scadenze, creando gravi turbamenti sui mercati che alla fine rendono irrealizzabili i salvataggi chiesti dalla stessa Bce? Su Mps si poteva percorrere una strada diversa, per raggiungere gli stessi risultati senza soldi pubblici? Si poteva evitare l’effetto contagio e disorientamento sull’intero sistema bancario italiano?

Cronaca di una morte annunciata
Prima di rispondere bisogna percorrere le ultime tappe di questa crisi che ha costretto lo Stato a salvare Mps. Tutto inizia il 23 giugno 2016: alla luce degli stress test che vedono Mps uscire come la peggiore banca d’Europa in un’eventuale situazione di crisi estrema, la Vigilanza della Bce(il Supervisory board guidato da Danièle Nouy) richiede alla banca senese un piano ben preciso di riduzione dei crediti deteriorati. Mps in effetti ha una quantità esorbitante di prestiti avariati, pari al 21,7% del totale crediti a fine 2015: il loro smaltimento è - giustamente - considerato fondamentale dalla Vigilanza. La Bce fissa dei limiti temporali per questo smaltimento: tre anni, dal 2016 al 2018.

Si badi: Mps non è insolvente in quel momento, ma anzi ha un patrimonio netto positivo. E non è neppure in perdita, dato che chiude il semestre con un utile di 302 milioni. Ma la riduzione dei crediti deteriorati dal bilancio è considerata dalla Bce - ripetiamo, giustamente - una priorità. Mps non solo incassa, ma rilancia: propone di eliminare non una parte, ma addirittura tutti i 27 miliardi di crediti in sofferenza subito, e di ricapitalizzarsi per 5 miliardi, tappando il buco che si verrà a creare una volta azzerati gli Npl. La Bce approva il piano, ma impone varie condizioni. Tra le quali, a novembre, se ne aggiunge una: il piano in tre mosse (cartolarizzazione-prestito ponte-aumento) va realizzato entro il 31 dicembre 2016. Superata quella data, sancisce la Bce, Mps finisce in risoluzione. Con forte rischio di bail-in.

Questo limite temporale, in vista del referendum costituzionale che potrebbe creare problemi a trovare investitori, crea ovvia agitazione sul mercato: il titolo scende in Borsa, i depositi fuggono dalla banca, le obbligazioni subordinate precipitano. E l’intero settore bancario italiano entra nel vortice di Borsa. Sarebbe probabilmente accaduto ugualmente, ma se non ci fosse stato un limite così perentorio per separare la vita e la morte della banca, forse il mercato sarebbe stato meno agitato.

Così, dopo il «no» al referendum costituzionale, la situazione precipita. Gli investitori che dovevano sottoscrivere l’aumento di capitale (a partire dal fondo del Qatar) si dileguano. Il vuoto politico aumenta l’incertezza. Mps prova a chiedere alla Bce una proroga di 20 giorni. Ma niente da fare: il limite del 31 dicembre, a causa della scarsa liquidità della banca, resta scolpito nella pietra. Così non resta altro da fare che aprire le porte allo Stato, penalizzando chi detiene obbligazioni subordinate. E proprio quando tutto sembra risolto, la Vigilanza Bce (senza neppure l’unanimità) lancia l’ultima zampata: siccome ora entra lo Stato, chiede a Mps un aumento di capitale quasi doppio rispetto a quello approvato dalla stessa Bce in precedenza. Creando nuova incertezza sul mercato: possibile che imposizioni analoghe siano in futuro avanzate anche per altre banche?

I precedenti
La situazione di Mps era e resta grave, l’arbitro doveva fischiare. Ma anche questa volta l’impressione è che l’intervento abbia reso ancora più difficile maneggiare una situazione che, comunque, era ed è considerata gestibile (sennò non si sarebbe avallato il tentativo privato, sennò non si concederebbe l’intervento dello Stato). E pensare che non si tratta della prima volta in cui la Vigilanza produce effetti collaterali. Due anni fa, quando Siena (insieme a Carige) era uscita malconcia dagli stress test pubblicati il 26 ottobre 2014, la Bce impiegò sette settimane per approvare i piani di ristrutturazione delle due banche. Un tempo troppo lungo per la Borsa: i due titoli in quel lasso di tempo persero infatti 2,3 miliardi sul listino, cioè due terzi di quanto le due banche avrebbero dovuto raccogliere sul mercato proprio in ossequio alle richieste del regolatore. Che, da allora, ha continuato a scandire la vita delle due banche a suon di diktat e ultimatum (basta pensare al “tifo” per l’offerta avanzata da Apollo a Carige). E anche tra Milano e Verona ne sanno qualcosa, visti i paletti posti dalla Bce per l’aggregazione tra Bpm e Banco Popolare: possibile che proprio quei paletti e l’intransigenza di Francoforte possano scoraggiare altri istituti ad aggregarsi, cosa invece auspicata dalla stessa Vigilanza?

Nessuno può dire che le banche italiane non abbiano problemi. E nessuno può pensare che la Bce non sarebbe dovuta intervenire. Tutt’altro, sia chiaro. Ma le modalità di azione, l’inflessibilità, l’incapacità di comunicare al mercato da parte di un’Autorità di vigilanza che non solo è nuova ma che è anche frutto di compromessi tra vari Paesi, hanno senza dubbio peggiorato la situazione già logora di queste banche. Un bravo medico deve salvare il malato: se ogni suo paziente viene tramortito dalla medicina o dal dosaggio prescritto, qualcosa dovrà pur significare.

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