Viaggio in un film dell’«errore». Così può riassumersi la lettura di molti report e studi che tentano di prevedere l’andamento dell’economia e della finanza. Un film che, immancabile, va in onda prima di importanti eventi (è accaduto, ad esempio, con le elezioni presidenziali statunitensi). Oppure che viene proiettato tra dicembre e gennaio di ogni anno. E che, immancabile, si articola tra target sbagliati e stime mancate. La prova? La fornisce Raffaele Zenti, analista quantitativo di AdviseOnly, con riferimento alle previsioni per il 2016. L’esperto ha preso in considerazioni diversi asset finanziari (dal rendimento del Treasury statunitense e del Bund tedesco fino all’indice S&P 500 e al cambio euro-dollaro). Ebbene Zenti, basandosi sui dati forniti da Bloomberg, ha elaborato l’errore medio assoluto percentuale. È saltato fuori che quest’ultimo «sulle asset class considerate- scrive l’esperto - è stato del 16,9%. Una percentuale non bassa. Eppure inferiore a quella dell’anno precedente». In quel caso, infatti, il valore era arrivato al 35%. «Nell’esercizio ancora prima - aggiunge Zenti - si era addirittura arrivati al 75%». Insomma: un bel viaggio nel film dell’«errore», per l’appunto.
Elemento temporale
Al di là dei numeri viene, in primis, da chiedersi: le previsioni, in generale, sono realmente utili? La risposta è positiva. Per rendersene conto è sufficiente un piccolo esercizio mentale: si pensi ad un mondo dove non esiste alcuna ipotesi sul futuro. Vale a dire: mancano i punti di riferimento (seppure probabili), in riferimento ai quali muoversi. In una simile contesto sarebbe difficile, per non dire impossibile, prendere qualsiasi decisione. La considerazione, a ben vedere, vale ancora di più nel mondo economico dove, per esempio, le aziende definiscono i loro budget sulle stime, ad esempio, del ciclo economico. Ciò detto nasce spontaneo un altro quesito: perchè si concretizza un simile scarto medio (in %) tra il valore teorico della previsione effettuata e il valore successivamente misurato? I motivi sono molteplici. Una causa, tra le altre, è l’arco di tempo considerato. I modelli predittiviti, si sa , hanno una parte sistematica e un’altra che, per loro stessa natura, è erratica. Di conseguenza: più si allontana il momento in cui è realizzata la previsione da quello cui è riferita e maggiore è la probabilità dell’errore. Se non altro perchè le variabili in grado di «sporcare» il modello aumentano.
Lo sguardo al passato
Ma non è solo una questione temporale. I modelli previsionali spesso funzionano all’interno di un determinato “regime”. Vale a dire: richiedono un trend delineato che, seppure caratterizzato dai cicli economico-finanziari, vanta una tendenza di fondo sul lungo periodo. Se il “regime” cambia, giocoforza, diventa difficile cogliere i punti di svolta. Così, ad esempio, i modelli cosiddetti strutturali definiscono il futuro basandosi sul ripetersi, nel passato, di un certo andamento dell’economia (regolarità storiche) in presenza di certi rapporti tra le variabili economiche. Nel momento in cui si concretizza un fatto nuovo, eccezionale, che modifica il “ regime” la vita del modello previsionale si complica. In parole semplici: nonostante la complessità e raffinatezza del modello, il fatto di “guardare” al passato per interpretare il futuro crea il problema. Se nel passato una situazione non si è mai verificata (o solo in rari casi), la regolarità economica non viene individuata. Di qui l’errore.
L’esposizione degli scenari
«A ben vedere -dice Raimondo Marcialis, ceo di Mc Advisory - una strada corretta è quella di definire diversi scenari con differenti livelli per le variabili di base. Dopo di che bisogna attribuire un valore probabilistico agli scenari così individuati. In tal modo potranno individuarsi i rendimenti attesi di un asset con riferimento ai differenti contesti». Un’articolazione che, però, in molti report di case d’affari o analisi di esperti non è presente: come mai? «Le realtà serie -risponde Marcialis - seguono la procedura indicata. Poi, nell’esposizione, danno conto solamente dello scenario base». Ciò detto, però, la certezza di un simile lavoro a monte non può esserci. E non solo. Spesso accade che la stima viene data in maniera puntuale perchè, da un lato, è più «utile» alla casa d’affari; e, dall’altro, perchè è il mercato stesso che la chiede. Nel momento, infatti, in cui fossero indicati diversi scenari è facile immaginare la sollevazione di molti operatori. I quali, magari per costruire i loro stessi scenari, richiedono una stima puntuale. La quale però, come indicato, per sua stessa natura può essere fallace. E, così, si somma eventuale errore ad errore.
Gli errori comportamentali
Fin qui alcune considerazioni sul perchè degli svarioni sulle stime di mercato. C’è però un’altra categoria di motivazioni la quale attiene all’oggetto di studio della finanza comportamentale. Così, ad esempio, si tende a guardare l’articolarsi futuro delle situazioni come l’inerzia del passato. «È un classico errore degli investitori», ricorda Marcialis. Uno sbaglio che, più in generale, viene compiuto da chi sottostima l’elemento istintuale dell’essere umano. Da tempo si riconosce che la teoria dell’homo oeconomicus è errata. L’investitore razionale che massimizza i profitti e minimizza le perdite è valido solo sui manuali. Nella realtà le cose stanno diversamente. Come ha mostrato proprio la crisi del 2008. Nel momento in cui, all’inizio del credit crunch, i tassi interbancari balzarono alle stelle la reazione delle Banche centrali fu quella di fornire liquidità al sistema. Una mossa corretta che, però, si scontrò con la variabile imprevista. Le banche non si fidavano più l’una dell’altra. Di conseguenza il mercato interbancario rimase congelato. Un imprevisto «cognitivo» non considerato dai modelli. I quali, in quell’occasione, non hanno funzionato. Può obiettarsi: il fenomeno può ricondursi alla casistica del punto di svolta che ha modificato il “regime”. Inoltre, al di là del caso specifico, i modelli econometrici prevedono già diverse variabili che “sintetizzano” gli elementi psicologici: dalla fiducia dei consumatori fino ai più sofisticati indicatori che “quantificano” l’impatto della variabile politica. Le obiezioni sono ragionevoli. E, tuttavia, non può negarsi che l’elemento “cognitivo” non solo è difficile da quantificare. Ma è anche, spesso, dimenticato dall’industria finanziaria. La quale, focalizzata sul raggiungimento del profitto, non di rado utilizza metodologie standardizzate e non troppo elaborate.
Il ricatto della paura
Infine, la speculazione. Nello scorso anno ci sono stati diversi casi in cui le previsioni degli esperti, in prossimità di una votazione politica, si sono rivelate errate. Un contesto la cui struttura logica può riassumersi nel seguente modo: se il risultato del voto è «A» allora si avranno delle gravi ripercussioni sui listini (e non solo); se, invece, prevarrà «B» tutto andrà per il meglio. La realtà ha mostrato che, al verificarsi di «A», il previsto Armageddon non c’è stato. Al contrario si è contestualmente concretizzato un altro trend: l’aumento della volatilità sui listini. Il Volatility index, prima del voto, è balzato in scia alla paura per la variabile «A». Poi, a risultato acquisito, il Vix è crollato. Il che è un paradosso. Infatti, nell’ipotesi in cui realmente i mercati avessero previsto, e temuto, un certo esito delle urne, il Volatility index avrebbe dovuto continuare a salire. O perlomeno non cedere posizioni. Il che, però, non è accaduto. Al che il signor Rossi, domanda: qual è stata la ragione del «ricatto della paura»? A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Così può rispondersi che le stime di un futuro «nefasto», nel caso di «A», hanno spinto la volatilità. Questa, unita alla maggiore confusione, ha allargato lo spazio d’azione degli hedge fund. «Il ricatto della paura» è diventato una strategia per i trader, soprattutto ribassisti, di brevissimo periodo. Insomma: previsioni sbagliate sull’andamento delle Borse dopo il voto...ma molto «utili» prima.
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