Arabia Saudita e Russia si ricompattano dopo il crollo del petrolio della settimana scorsa, proclamando di essere pronte a proseguire i tagli di produzione, eventualmente anche nel 2018. È la prima volta che viene prospettata la possibilità di una proroga così lunga e la sincronia delle dichiarazioni di Riad e Mosca – che nei mesi scorsi avevano promesso un’alleanza duratura nel governare i mercati petroliferi – non sembra affatto casuale.
Le parole dei ministri dell’Energia Khalid Al Falih e Alexander Novak non sono comunque riuscite a riaccendere i prezzi del greggio: la seduta si è chiusa solo con un modesto rialzo dello 0,5%, che ha portato Brent e Wti rispettivamente a 49,34 e 46,43 dollari al barile.
A parlare per primo, anticipando di poche ore un comunicato da Mosca, è stato il saudita: «In base alle consultazioni che ho avuto con i Paesi partecipanti, ho fiducia che l’accordo (sui tagli, Ndr) sarà esteso alla seconda metà dell’anno e verosimilmente anche oltre», ha detto Al Falih durante un convegno in Malaysia.
Il ministro è anche tornato a citare, come già aveva fatto in altre occasioni, il celebre «whatever it takes» pronunciato da Mario Draghi in difesa dell’euro: «La coalizione dei produttori è determinata a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere l’obiettivo di riportare il livello delle scorte in linea con la media degli ultimi cinque anni».
Mosca – che finora aveva evitato di esporsi sulla proroga dei tagli produttivi, rinviando la decisione al vertice Opec del 25 maggio – dopo la caduta dei prezzi dei giorni scorsi non ha esitato a dare man forte ai sauditi. «La Russia esprime piena solidarietà con gli sforzi dei nostri partner per ribilanciare i mercati petroliferi», ha dichiarato Novak in una nota diffusa dal ministero dell’Energia. «Stiamo discutendo una serie di scenari e pensiamo che l’estensione per un periodo più lungo aiuterà ad accelerare il riequilibrio del mercato».
Un filo di ambiguità sulla durata della proroga rimane tuttora, da parte dei russi. Ma il lavoro di sponda tra Mosca e Riad è comunque significativo. A margine del G-20 di Hagzhou, lo scorso settembre (dunque prima dell’accordo Opec-non Opec sui tagli), i due big mondiali del petrolio avevano siglato un patto che li impegnava ad agire «congiuntamente o con altri produttori» per mitigare la volatilità del prezzo del barile. Di «collaborazione di lungo termine» Al Falih aveva parlato anche all’annuncio dei tagli congiunti Opec-non Opec, il 10 dicembre dell’anno scorso. L’asse Arabia Saudita-Russia sembra a questo punto tenere.
Diverse fonti confermano in ogni caso che la discussione all’interno dell’Opec e tra l’Opec e i suoi alleati si è ormai spostata dall’eventuale necessità di proseguire i tagli (che quasi tutti danno per scontata, compresi gli investitori) alla durata ottimale della proroga. Secondo indiscrezioni raccolte da Bloomberg ci sarebbe anche all’esame l’ipotesi di un’ulteriore chiusura dei rubinetti, visto che il taglio di 1,8 mbg è stato in buona parte neutralizzato dall’accelerazione delle estrazioni negli Stati Uniti (dove l’output da gennaio è salito di ben 700mila barili al giorno, a 9,3 mbg) e più di recente dal recupero della produzione libica, tornata a 660mila bg con la riapertura dei giacimenti Sharara, El Feel e Wafa.
A livello globale domanda e offerta di greggio in realtà hanno cominciato a riallinearsi, con un contributo determinante da parte dell’ Opec e della Russia. Molti analisti, tra cui quelli di Goldman Sachs e Citigroup, continuano ad aspettarsi un deciso calo delle scorte a partire dalla seconda metà dell’anno. Ma la resurrezione dello shale oil (e i record produttivi che gli Usa continuano a registrare anche nel Golfo del Messico) sono un fenomeno troppo vistoso per poter essere ignorato dagli investitori. E lo stesso vale per le scorte petrolifere Usa, che si ostinano a non scendere abbastanza.
Gli hedge funds hanno perso la pazienza e – dopo le generose performance del petrolio nei mesi scorsi – sono passati all’incasso. Non è solo il prezzo del petrolio, ma anche l’esposizione rialzista dei fondi ad essere crollata ai livelli di novembre, quando i tagli di produzione stavano ancora prendendo foma: le posizioni nette lunghe (all’acquisto) sono crollate del 15% nella settimana al 2 maggio, portandosi tra Brent e Wti all’equivalente di 547 milioni di barili. In particolare sono fortemente aumentati i “corti”, ossia le scommesse al ribasso, ed è probabile – vista la débâcle dei prezzi – che liquidazioni e vendite allo scoperto siano continuate nei giorni scorsi, sommandosi ai venti ribassisti dalla Cina.
Questi ultimi non sono mancati neanche ieri, con le importazioni di greggio di Pechino che ad aprile sono calate dell’8,8% dal record storico del mese precedente, pur attestandosi su volumi considerevoli, che confermano il sorpasso degli Usa: 8,4 mbg.
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