L’impressione è che stia diventando sempre di più un affare privato, tra Arabia Saudita e Russia. Sono questi Paesi – che insieme controllano un quinto dell’offerta mondiale di petrolio – a fare da collante alla coalizione di ventiquattro Paesi, Opec e non, che ieri ha deciso di prolungare i tagli alla produzione di greggio per altri nove mesi, fino a marzo 2018.
Ci sono segnali evidenti che la coesione del gruppo minaccia di cedere. Ma Riad per conto dell’Opec e Mosca per i non Opec stanno stringendo le briglie. I due ministri dell’Energia, Khalid Al Falih e Alexander Novak, esibiscono un’intesa perfetta, che ormai va ben al di là dei comunicati congiunti. I due si presentano spesso insieme, si scambiano sguardi, complimenti e battute scherzose, anche sulle visite reciproche, che stanno diventando sempre più frequenti: «Io li ho portati nel caldo del deserto e adesso mi tocca il deserto di ghiaccio», rideva ieri il saudita raccontando che la settimana prossima tornerà in Russia, dove vedrà anche i giacimenti siberiani.
Soprattutto Al Falih e Novak si muovono in modo coordinato, con una strategia precisa che affonda le radici nel patto di cooperazione in campo energetico siglato lo scorso settembre, a margine del G20-20 di Hangzhou. Mosca e Riad ora progettano esplicitamente un superamento dell’Opec, con la creazione di una sorta di Super-Opec: ai Paesi che stanno partecipando ai tagli della produzione di petrolio è stata sottoposta la bozza di un accordo quadro, riferisce Al Falih, per «istituzionalizzare una cornice di cooperazione che vada oltre l’attuale azione congiunta». Un organismo «di natura permanente» che permetta, come dice Novak, di «reinventarsi in una nuova task force internazionale ».
Non sarà facile. Anche perché la grande coalizione, destinata a trasformarsi in Super-Opec, ieri ha raggiunto un risultato che è davvero il minimo sindacale.
L’accordo raggiunto a Vienna replica esattamente quello in vigore da gennaio: il taglio di produzione è prolungato per altri nove mesi, ma resta identico - 1,8 milioni di barili al giorno – e nessun Paese si è aggiunto al gruppo originario: la Guinea Equatoriale ha solo cambiato casacca, venendo accolta nell’Opec. Per il mercato è stata una delusione: il petrolio ha chiuso con un ribasso di circa il 5%, che ha ricacciato il Wti sotto la soglia psicologica di 50 $/barile.
Le quotazioni avevano cominciato a scivolare fin dal mattino, quando Al Falih aveva prospettato la scelta dell’opzione «più sicura» tra quelle in discussione al vertice, ammettendo che l’ipotesi di ampliare i tagli produttivi era stata esaminata, ma scartata perché «giudicata non necessaria».
Molti analisti l’hanno letto come un segnale di impotenza: «Questo dimostra che non c’è molto altro che l’Opec possa fare», ha commentato Olivier Jakob di Petromatrix. E i fondi di investimento hanno cominciato a liquidare le posizioni rialziste che avevano costruito nell’eventualità che vertice fosse riuscito a riservare qualche sorpresa, invece di limitarsi a confermare le anticipazioni.
Mantenere gli stessi tagli, assicura Al Falih, basterà ad accelerare la riduzione delle scorte petrolifere, riportandole in linea con la media degli ultimi 5 anni forse già entro dicembre. Il comitato di monitoraggio Opec-non Opec è stato rafforzato nei suoi poteri, per segnalare tempestivamente l’eventuale necessità di un intervento più incisivo. Per lo stesso motivo non serve nemmeno un’exit strategy per lo stesso motivo non serve: «Non intendiamo uscire – afferma il saudita – L’Opec è molto agile, può reagire a ogni imprevisto. E non abbandoneremo il mercato». Dunque se serve più petrolio ci sarà e se non serve «non è detto che i tagli non possano continuare oltre marzo».
Fin dalla vigilia del vertice era stato chiaro che bisognava cercare una sintesi tra i diversi Paesi dell’Opec, divisi non sull’opportunità di una proroga dei tagli, ma sulla durata e sull’entità. Il malessere più forte trapelava tuttavia tra gli alleati esterni, come nel caso del Kazakhstan, che rifiutava di proseguire con gli stessi limiti all’output. Alla fine Astana è stata convinta, come tutti gli altri, a non spezzare l’unità del gruppo.
Ma nella due giorni di Vienna non sono mancati quelli che gli esperti di comunicazione chiamerebbero segnali soft. Tanto per cominciare, non si è presentato nessun nuovo alleato: persino il Turkmenistan – ormai dato per certo nella coalizione – non ha inviato un rappresentante. E pure l’Egitto, già derubricato a semplice «osservatore», ha dato forfait. Inoltre sono stati accuratamente evitati i contatti tra i ministri dei Paesi non Opec e i media internazionali. Solo il russo Novak rilasciava dichiarazioni e lo faceva solo in conferenza stampa o parlando in russo con giornalisti russi.
Anche ieri c’è stato un improvviso cambio di programma: ai media è stata ritirata la possibilità di accedere alla sala della riunione Opec-non Opec per fare domande ai ministri prima dell’avvio dei lavori. Stesso copione di giovedì, quando era stata cancellata la conferenza stampa del comitato di monitoraggio sui tagli, altro organismo misto Opec-non Opec: nessuna spiegazione, solo l’imbarazzata comunicazione di un funzionario.
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