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Exxon, investimenti più che triplicati negli Stati Uniti dello shale

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Exxon, investimenti più che triplicati negli Stati Uniti dello shale

(Ap)
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Petrolio in recupero e tasse ridotte spingono ExxonMobil ad accelerare gli investimenti, concentrandoli sempre di più negli Stati Uniti. La compagnia americana spenderà 50 miliardi di dollari in patria nei prossimi 5 anni, 35 miliardi in più di quanto avesse previsto: un livello di nuovo simile a quello del 2012-2016, prima che la crisi la spingesse a tagliare drasticamente il budget.

Il ceo Darren Wood – che ha rivelato i piani attraverso un blog sul sito Exxon – è è stato avaro di dettagli. Ma l’annuncio rappresenta comunque un ulteriore segnale di come la ripresa nel settore petrolifero rischi di essere eccessivamente focalizzata sullo shale oil, che da solo non basterà a soddisfare il futuro fabbisogno di greggio.

Wood ha citato espressamente il Bacino di Permian, la più prolifica delle aree di shale negli Usa, che oggi produce da sola 2,8 milioni di barili al giorno, quanto gli Emirati arabi uniti. Exxon, che da tempo perde denaro nell’upstream Usa, vuole aumentare le estrazioni a Permian addirittura di cinque volte entro il 2025, ha chiarito ieri la società, fino a 500mila bg.

Altri investimenti negli Usa, afferma Wood, saranno indirizzati ad «espandere le operazioni esistenti, migliorare le infrastrutture e costruire nuovi impianti manifatturieri».

Il ceo fa riferimento alla «storica riforma fiscale» promossa da Donald Trump e a «normative più intelligenti», che permetteranno a Exxon di «aumentare ulteriormente la competitività nel mondo » e agli Usa di avere «più posti di lavoro ed espansione economica». Frasi impregnate di propaganda, che tuttavia indicano con chiarezza la direzione in cui si sta muovendo la società.

Exxon non è isolata nella scelta di scommettere sullo shale. La seconda compagnia americana, Chevron, ha indicato di recente che nel 2018 aumenterà del 70% gli investimenti nelle attività di fracking negli Usa, a 4,4 miliardi di dollari: un incremento che colpisce ancora di più se messo in confronto al capex complessivo, che invece si riduce per il quinto anno consecutivo, portandosi a 18,3 miliardi (-4% dal 2017 e meno della metà rispetto al picco di 41,9 miliardi del 2013).

Persino Royal Dutch Shell, che non è americana, punta sulle risorse non convenzionali come maggiori direttive di crescita nel prossimo decennio: il suo obiettivo, ha dichiarato il ceo Ben van Beurden al Financial Times, è «accelerare in modo significativo gli investimenti» sullo shale di Permian e dell’area canadese di Duvernay, nell’Alberta.

In generale l’industria petrolifera, scottata dagli anni della crisi, ha accantonato i progetti faraonici di un tempo, per concentrarsi su investimenti di minore entità, più flessibili e “scalabili”, che garantiscano un ritorno in tempi contenuti: un identikit che corrisponde in modo quasi perfetto allo shale.

Le prime conseguenze si stanno già osservando. Le scoperte di giacimenti convenzionali nel 2017 sono crollate al minimo storico: sono stati ritrovati appena 6,7 miliardi di barili, stima Rystad Energy, sufficienti per rimpiazzare appena l’11% delle risorse estratte.

Se non ci sarà un’inversione di tendenza l’offerta di petrolio potrebbe presto rivelarsi insufficiente, come non smette di ricordare l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie).

Lo shale oil sta crescendo a ritmi da primato – tanto che gli Usa quest’anno dovrebbero diventare i primi produttori di greggio al mondo, superando Arabia Saudita e Russia – ma riesce a soddisfare non più del 5-6% della domanda petrolifera.

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