Il banco di prova per misurare l’effetto-spread sarà costituito dai casi Atlantia e Fincantieri. Entrambe le società hanno avviato proprio ieri i roadshow, in agenda da tempo, per incontrare gli investitori internazionali ed emettere nuove obbligazioni. Se alla fine entrambe decideranno di sbarcare sul mercato (sarebbero le prime emissioni italiane di bond dopo le elezioni del 4 marzo), allora significherà che la turbolenza di questi giorni non ha avuto un impatto sulle aziende. Se invece decideranno di ritirare l’operazione, perché gli investitori chiedono rendimenti più elevati del previsto, allora bisognerà ammettere che un effetto c’è stato. Che lo «spread» sta già colpendo.
A prescindere però da come andranno i due casi specifici (e sottolineando che per ora anche sui mercati non è accaduto nulla di drammatico), una cosa è certa: lo «spread» non va sottovalutato. Perché è vero che uno Stato non deve inginocchiarsi alla grande finanza, ma è anche vero che la finanza può mettere in ginocchio un intero Paese. Tutte le ultime crisi economiche e sociali sono state infatti generate da crisi finanziarie. Inclusa la recessione italiana, nata proprio dalla crisi dello «spread» del 2011-2012. Proprio quanto accaduto in passato può aiutare a capire perché.
Il circolo vizioso
Quando lo «spread» sale significa che - a parità di tassi ufficiali fissati dalla Bce per tutti - un Paese è costretto a pagare interessi sul debito più elevati rispetto alla Germania. Perché gli investitori lo considerano meno affidabile. Il problema, a prima vista, sembrerebbe riguardare solo lo Stato. Ma non è così. A soffrire di più sono invece le imprese. Se sale lo «spread» sui titoli di Stato, crescono infatti anche i tassi d’interesse che le banche devono pagare per reperire finanziamenti sui mercati. E se le banche sono costrette a pagare tassi più elevati (in maniera anomala), a loro volta girano questi costi sui nuovi prestiti alla clientela. È così che lo «spread» nasce nella grande finanza, ma finisce sulla pelle degli italiani.
I numeri della crisi passata lo dimostrano. Secondo uno studio della Banca d’Italia del 2013 (quando il tema era d’attualità) un aumento dello «spread» tra BTp e Bund di 100 punti base causa un incremento del costo di finanziamento delle banche sui mercati internazionali di 70 punti base in tempi normali e di 100 in tempi di crisi. Secondo uno studio degli stessi anni realizzato da Crif Decision Solutions (che ha nel suo database i dati di famiglie e imprese), questo aumento dei costi per gli istituti creditizi ha un impatto diretto su famiglie e imprese.
Nel corso del 2011 - proprio a causa dello spread - le aziende italiane hanno subìto in un anno una crescita del costo del debito a breve termine di circa 80 punti base. In soldoni, le imprese italiane nel 2011 hanno sostenuto 15 miliardi di euro di oneri finanziari aggiuntivi. Causa spread. Contemporaneamente le banche hanno chiuso i rubinetti del credito, soprattutto per le aziende più deboli. Questo ha provocato una contrazione generale degli utili, della redditività (il Roe è sceso dal 3,2% all’1,1%) e - alla fine - degli investimenti. Stesso discorso per le famiglie: calcola Crif che sui nuovi mutui le rate sono salite di circa il 4% nel 2011. E i nuovi mutui sono calati. Con un forte impatto sul mercato immobiliare. Tutto questo nel 2011: prima dell’austerità targata Monti.
Se questi numeri sono relativi all’anno più doloroso per la crisi dello spread, gli effetti sull’economia italiana si sono visti soprattutto negli anni successivi. Secondo i dati di Bankitalia, da fine 2011 al 2017 la quantità di credito bancario alle imprese italiane si è contratta di 181 miliardi di euro. E il costo del debito è salito, fino a quando non è intervenuta la Bce. Vari fattori hanno influito, certo, ma lo spread ha rappresentato la causa scatenante.
Oggi ci sono rischi?
Oggi il mondo è molto diverso. Nel 2011-2012 non c’era la Bce a comprare titoli di Stato e la crisi greca metteva il panico in tutto il Sud Europa. Oggi i mercati (dominati da investitori passivi che seguono benchmark) hanno un tasso di “serenità” molto elevato. Per di più l’Italia ha una - pur asfittica - crescita economica e valutazioni di mercato ancora interessanti. Infine gli investitori sono alla finestra, ad aspettare - giustamente - le prime mosse di questo Governo prima di giudicarlo. Per questo, nonostante la volatilità crescente, Piazza Affari resta una delle Borse migliori del 2018 e lo «spread» resta tutto sommato su livelli contenuti. Ma è solo una tregua armata: sarà il nuovo Governo a doversi meritare la fiducia.
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