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Petrolio, prezzi alti e guerra dei dazi iniziano a frenare i consumi

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Petrolio, prezzi alti e guerra dei dazi iniziano a frenare i consumi

Oltre alle forniture extra promesse dall’Arabia Saudita e dalla Russia, c’è un altro fattore che nei prossimi mesi potrebbe raffreddare il prezzo del petrolio. La domanda, dopo anni di crescita record, inizia a mostrare segnali di debolezza. Ed è una notizia di cui, al di là delle apparenze, non è il caso di rallegrarsi.

A sostenere la crescita dei consumi petroliferi sono stati finora soprattutto la buona salute dell’economia globale e i costi ridotti. Ma lo scenario adesso non è più così favorevole: il Brent è rincarato di quasi il 70% nell’ultimo anno, arrivando a 80 dollari al barile, e i rincari hanno cominciato a trasmettersi a valle, con bollette e pieni di carburante più salati in tutto il mondo.

Intanto le guerre commerciali iniziano a pesare sugli scambi. E purtroppo siamo solo agli inizi. Domani gli Usa dovrebbero imporre nuovi dazi per 34 miliardi di $ contro la Cina e Pechino ha già approntato ritorsioni, minacciando di colpire in futuro anche il petrolio americano.

Gli acquisti cinesi di greggio Usa stanno già rallentando. Secondo fonti Reuters, i fornitori americani starebbero offrendo sconti in Asia anche sui barili di qualità sour (più pregiati dello shale oil, di cui c’è grande abbondanza), pur di vincere le resistenze in vista dei probabili dazi e contrastare la concorrenza dei sauditi, che dopo oltre due anni di tagli produttivi ora sono tornati ad aprire i rubinetti.

Il problema non riguarda comunque solo i barili americani: la domanda di greggio in generale sta frenando, in Cina come nel resto dell’Asia.

Il continente da due mesi a questa parte sta importando meno: i dati preliminari sugli ordini dei maggiori acquirenti, raccolti dalla stessa Reuters, mostrano un calo dell’11% a luglio (su base mensile), a 16,7 milioni di barili al giorno. Tra maggio e giugno l’import asiatico è tornato ai livelli del 2016: 19,3 mbg in media, contro i 20,2 mbg di un anno fa.

La contrazione è legata anche al crollo dei margini di raffinazione: a Singapore, area benchmark per l’Asia, quelli per la produzione di benzina sono dimezzati nel giro di un mese, ai minimi da due anni. In Cina c’è stato inoltre un forte aumento delle tasse sui carburanti, che ha penalizzato soprattutto i raffinatori indipendenti, le cosiddette «teiere», che negli ultimi due anni erano emerse come forti importatori di greggio e ora sono quasi paralizzati negli acquisti. È forse legata a questo fenomeno la presenza, da oltre due mesi, di quattro superpetroliere di Bp ferme al largo dello Shandong: 8 milioni di barili di greggio (per un valore di oltre 600 milioni di $) , che solo in minima parte la compagnia è riuscita a scaricare.

La situazione in Cina da sola basterebbe a gettare un’ombra sulla domanda petrolifera mondiale: è questo Paese (insieme all’India) che sta trainando la crescita dei consumi. Ma segnali di frenata si vedono anche altrove. Il caro petrolio del resto non è un problema esclusivamente asiatico, così come non lo è l’indebolimento dei margini di raffinazione:  Wood Mackenzie rileva che a livello globale a metà giugno erano scesi a 4,2 $/barile, ben al di sotto della media quinquennale(che è intorno a 6 $).

La benzina a 3 dollari al gallone, fonte di grandi preoccupazioni per Donald Trump, ha iniziato a scoraggiare anche gli automobilisti americani: gli ultimi dati della Federal Highway Administration dicono che ad aprile il traffico autostradale è calato per la prima volta dal 2014 (-0,6%).

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