Con il Brent che punta verso 80 dollari al barile, vicino ai massimi da quattro anni, e in vista di un’importante riunione tecnica dell’Opec Plus, erano in molti a scommettere che Donald Trump non avrebbe resistito alla tentazione: un nuovo tweet sul caro petrolio era nelle carte e infatti è puntualmente arrivato, insieme a quello di congratulazioni per il record di Wall Street.
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«Il monopolio dell’Opec deve abbassare i prezzi ora!», ha intimato il presidente Usa, utilizzando per la sesta volta da aprile il social network per accusare il gruppo (peraltro non certo un monopolio, ma semmai un cartello e per di più non sempre coeso).
L’inquilino della Casa Bianca, impegnato a costruire consenso per le elezioni di mid-term a novembre, sceglie toni minacciosi: «Noi proteggiamo i Paesi del Medio Oriente – afferma lo stesso messaggio – Non sarebbero sicuri molto a lungo senza di noi eppure continuano a spingere per avere prezzi del petrolio sempre più alti! Ce ne ricorderemo».
Trump sa – o dovrebbe sapere – che proprio le sue politiche sono tra le cause principali del rinnovato vigore del rally sui mercati petroliferi: il ripristino delle sanzioni Usa ha già ridotto di 500mila barili al giorno le forniture di greggio dall’Iran tra aprile e agosto, stima l’Agenzia internazionale per l’energia, e la perdita rischia di raddoppiare con l’entrata in vigore delle misure, tra meno di due mesi.
Eppure i tweet del presidente (abbinati alla diplomazia dei suoi funzionari, dietro le quinte) finora non sono stati privi di efficacia.
L’Arabia Saudita in particolare fino alla primavera scorsa era ancora molto ferma nel sostenere la necessità di proseguire con i tagli produttivi. Ma ha fatto una rapida inversione a U dopo che Trump ha stracciato gli accordi sul nucleare iraniano e ha cominciato a pretendere forniture extra per compensare l’effetto delle sanzioni.
Riad – con l’aiuto decisivo di Mosca – a giugno è riuscita a far approvare all’unanimità dalla coalizione Opec-non Opec un aumento di fatto della produzione petrolifera da un milione di barili al giorno.
Sauditi e russi da soli hanno già riportato sul mercato circa 800mila bg. Ora Washington vorrebbe ancora di più (e forse non sbaglia, visto che le estrazioni in Venezuela continuano a crollare e ci sono infiniti altri rischi per l’offerta). Ma aprire ulteriormente i rubinetti potrebbe non essere facile, sia dal punto di vista tecnico sia sotto il profilo politico.
La riunione Opec-non Opec di domenica ad Algeri, formalmente solo uno dei periodici incontri del Comitato di monitoraggio sui tagli produttivi, ha assunto un’importanza cruciale per il futuro della coalizione e per il mercato.
I colloqui verteranno su come ripartire l’aumento dell’output tra i vari Paesi ed è probabile che si discuterà anche dell’eventuale necessità di ulteriori incrementi. Temi scottanti, che hanno attirato la partecipazione di una ventina di Paesi su un totale di 25 della coalizione. Tra gli assenti spicca però l’Iran, che ha dato forfait e ora riapre la polemica col gruppo.
«Le decisioni possono essere prese solo ai vertici Opec, alla presenza di tutti i membri e all’unanimità», ha dichiarato il ministro del Petrolio Bijan Zanganeh, annunciando il suo veto a qualunque proposta «che minacci anche minimamente gli interessi nazionali dell’Iran».
C’è un messaggio anche per chi è incline ad assecondare le richieste di Trump. «Stanno distruggendo l’Opec. Piano piano, senza dirlo esplicitamente, vogliono mettere insieme un forum ristretto, che rimpiazzi l’Opec. Se non facciamo attenzione scaveremo la tomba dell’Opec con le nostre mani».
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