Sull’onda dell’entusiasmo per l’auto elettrica, i metalli da batterie sembravano destinati a diventare sempre più rari e preziosi. Invece, dopo anni di rincari record, i prezzi sono andati a picco: non solo quelli del litio – per cui molti avevano previsto un eccesso di offerta – ma anche quelli del cobalto, sul quale la maggior parte degli analisti era invece super rialzista.
Il crollo è arrivato in modo improvviso ed è stato davvero rilevante: il cobalto oggi vale meno di un terzo dei 100mila dollari per tonnellata verso cui volava ad aprile 2018, quando al London Metal Exchange era ai massimi decennali. Dallo scorso novembre, quando ha incominciato a perdere quota, è in ribasso di oltre il 40 per cento. Nel frattempo il valore del litio è sceso ai minimi da tre anni, secondo l’indice globale di Benchmark Mineral Intelligence.
La fine del rally dei metalli per l’auto elettrica – che era stato così impetuoso da far quadruplicare il prezzo del cobalto in un paio d’anni – arriva per ironia in una fase di forti rialzi per le materie prime utili ai motori a combustione: il petrolio si è apprezzato di oltre il 20% quest’anno e il palladio, usato nelle marmitte catalitiche, è ai massimi storici.
I veicoli a batteria e gli ibridi non hanno certo perso interesse. E nessuno mette in dubbio che la loro diffusione è destinata a crescere. Ma lo scenario – almeno agli occhi degli speculatori, che avevano contribuito a gonfiare i prezzi del cobalto – è un po’ cambiato.
L’opinione prevalente oggi è che la fame di metalli da batterie nei prossimi 2-3 anni non aumenterà così tanto da non poter essere soddisfatta. C’è stato infatti un rapido sviluppo di nuove miniere, che per Wood Mackenzie ha provocato addirittura «uno tsunami di offerta» .
La società di ricerca prevede 110mila tonnellate addizionali di carbonato di litio nel 2019, a fronte di una crescita dei consumi di 33mila tonnellate. Quanto al cobalto, il suo scenario base è che l’offerta (soprattutto di idrossido) cresca di 36mila tonnellate, la domanda di appena 11mila: un surplus ampio, nonostante le recenti difficoltà in alcune grandi miniere.
Nella Repubblica democratica del Congo, Paese da cui proviene il 70% del metallo,Glencore ha sospeso l’export da Kamoto dopo il rinvenimento di tracce di uranio e in seguito ha rallentato lo sviluppo della miniera Mutanda, dove ha da poco avviato licenziamenti. Sta licenziando – e tagliando la produzione –anche un’altra mineraria attiva in Congo, Eurasian Rersources Group.
Ivan Glasenberg, ceo di Glencore, si dice convinto che il prezzo del cobalto sia vicino a toccare il fondo, grazie alle riduzioni dell’offerta e a un rilancio della domanda a partire dal 2020, quando inizierà una fase di ristoccaggio da parte dei consumatori.
Ma finora a sballare le previsioni sono stati fattori del tutto estranei al suo controllo, a cominciare dai cosiddetti minatori «artigianali»: lavoratori illegali, spesso bambini costretti a scavare a mani nude in cerca di cobalto nel Paese africano.
Questa versione moderna e disperata della caccia all’oro l’anno scorso ha fruttato ben 24mila tonnellate di produzione stima Cru Group: più del doppio che nel 2016, quando era il rally dei prezzi era appena cominciato.
Nel frattempo la domanda si è afflosciata. La Cina – le cui fabbriche sfornano il 65% delle batterie prodotte nel mondo – ha fortemente rallentato gli acquisti, sia di cobalto che di litio. Aveva fatto scorte eccessive negli anni passati, soprattutto alla luce del rallentamento del mercato dell’auto.
Per la prima volta da decenni le immatricolazioni nella Repubblica popolare sono in calo. Inoltre Pechino sta scalando gli incentivi per i veicoli elettrici, mentre il programma statale che dal 2012 ha distribuito oltre 10 miliardi di dollari di sussidi alle megafactory di batterie si concluderà l’anno prossimo.
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