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Petrolio, il mercato rischia un conto salato per le sanzioni Usa contro Venezuela e Iran

Le sanzioni americane contro il Venezuela e l’Iran stanno provocando danni crescenti non solo ai Paesi nel mirino della Casa Bianca ma all’intero mercato globale del petrolio.

La disponibilità di alcune qualità di greggio – quelle con maggiore contenuto di zolfo e di densità media o pesante – si è infatti assottigliata e minaccia di diminuire ulteriormente nei prossimi mesi, con probabili ripercussioni anche sui prezzi alla pompa. Il costo degli approvvigionamenti, già in salita, potrebbe aumentare ancora, mettendo sotto pressione i margini di raffinazione.

La teoria secondo cui il petrolio «made in Usa» verrà in soccorso ai consumatori di tutto il mondo è in gran parte frutto di propaganda: lo shale oil, che costituisce due terzi della produzione statunitense, continua a scorrere generoso, ma ha caratteristiche diverse rispetto alle forniture che stanno venendo a mancare ed è impensabile che riesca a sostituirle.

Le sanzioni contro il petrolio di Caracas in particolare stanno avendo conseguenze molto pesanti, oltre che rapide. Imposte solo a fine gennaio, per forzare la caduta del regime di Nicolas Maduro, hanno già aggravato in modo significativo le precarie condizioni dell’industria petrolifera locale.

Gli Usa erano infatti la prima destinazione del greggio venezuelano (destinato anche alla raffineria Citgo, oggi sequestrata), nonché il primo fornitore di nafta e altri diluenti indispensabili a Pdvsa, la compagnia di Stato, anche solo per trasportare via oleodotto il petrolio più denso, estratto nell’Orinoco.

Il Venezuela ha visto crollare la sua produzione a 1,1 milioni di barili al giorno a febbraio, dagli 1,34 mbg di fine 2018 (e dai 2,4 mbg del 2015). L’anno prossimo, secondo Rystad Energy, potrebbe addirittura scendere sotto 700mila bg.

Pdvsa sta faticando a trovare clienti, anche se gli Usa – a differenza che con l’Iran – non hanno per ora imposto sanzioni extraterritoriali e oggi al largo del Venezuela sono ferme all’ancora petroliere con 10,8 milioni di barili di greggio a bordo, stima Platts.

L’export dall’Iran intanto si è quasi dimezzato dalla primavera scorsa – pur restando a livelli superiori al previsto, intorno a 1,3 mbg – ed è probabile che si riduca ulteriormente dopo il 4 maggio, se Washington non rinnoverà i cosiddetti «waivers», uno scudo temporaneo dalle sanzioni concesso a otto Paesi (tra cui l’Italia e i grandi consumatori asiatici).

Eventuali tentativi di aggirare l’embargo ora rischiano addirittura di scatenare una reazione militare da parte di Israele: se Teheran continuerà a «contrabbandare» petrolio, ha minacciato il premier Benjamin Netanyahu, «la Marina avrà un ruolo più importante nel bloccare queste azioni».

Secondo l’Oxford Institute of Energy Studies (Oies) tutto il greggio iraniano perduto finora, ossia 1,1 mbg, era medium sour. Dal Venezuela, a partire da gennaio 2016 è venuta a mancare una quantità analoga tra medium (0,4 mbg) ed heavy sour (0,7 mbg).

Riguardano soprattutto qualità ad alto contenuto di zolfo anche i tagli produttivi dell’Opec (in tutto 1,2 mbg) e quelli della provincia canadese dell’Alberta (335mila bg).

Ad essere sempre più abbondante sul mercato è invece lo shale oil americano, super leggero e soprattutto sweet (ossia poco solforoso), non adatto a tutte le raffinerie. La produzione totale degli Usa ha superato 12 mbg, un record storico, mentre l’export si è spinto fino a 3 mbg.
@SissiBellomo

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