A prescindere dalle future scelte politiche, l’Italia sembra aver già perso l’opportunità di diventare hub del gas: un’ambizione che in passato abbiamo coltivato a lungo e che ha pesato non poco nella tormentata vicenda del Tap. Il gasdotto dal Mar Caspio, ricevuto il benestare del Governo gialloverde, a questo punto sarà ultimato, ma da solo non basterà a trasformare la Penisola un importante crocevia delle rotte energetiche.
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Sullo scacchiere del Vecchio continente si stanno intanto giocando altre partite, da cui siamo già stati (o rischiamo di essere) tagliati fuori: dal raddoppio del Nord Stream tra Russia e Germania, che ci costringerà a pagare bollette più salate, al gasdotto TurkStream – con cui Gazprom conta di servire l’Europa del Sud, ma che sembra ormai puntare verso i Balcani piuttosto che verso l’Italia – fino alle infrastrutture, ancora futuribili, per l’esportazione di gas dal Mediterraneo Orientale.
I giochi non si sono ancora del tutto chiusi. Ma c’è già almeno un vincitore: la Germania, che si appresta a diventare – se non un vero e proprio hub – uno snodo cruciale per lo smistamento del gas russo in Europa, a scapito anche dell’Italia. Le politiche di Berlino rischiano di costarci già quest’anno un aggravio di mezzo miliardo di euro sulla bolletta energetica, ha denunciato pochi giorni fa Stefano Saglia, commissario dell’Arera.
Passo indietro sull’EastMed
La partita nel Mediterraneo Orientale è forse l’unica in cui l’Italia ha ancora la possibilità di farsi valere, se non altro
grazie al ruolo da protagonista che l’Eni ricopre nell’area, dopo l’avvio del supergiacimento di Zohr in Egitto, le trivellazioni incoraggianti nel vicino prospetto
di Nour e la recente scoperta di gas nel pozzo Calypso al largo di Cipro.
Il nostro Paese tuttavia si sta defilando, quanto meno dal progetto EastMed: un gasdotto forse utopico date le sfide tecniche, geopolitiche e commerciali, ma che sta guadagnando un crescente appoggio politico. Dopo le istituzioni europee, anche gli Stati Uniti si sono ora schierati a favore della pipeline, in chiave anti russa e forse anche in appoggio a ExxonMobil che a sua volta ha appena fatto una scoperta rilevante a Cipro e, secondo fonti Reuters, a giugno parteciperà alla prossima gara per licenze esplorative in Israele.
C’era anche il segretario di Stato Usa Mike Pompeo mercoledì a Gerusalemme, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il greco Alexis Tsipras e il presidente cipriota Nicos Anastasiades, tutti riuniti per ribadire il sostegno a EastMed. Ma la cerimonia si è svuotata di senso: avrebbe dovuto esserci la firma degli accordi intergovernativi per il gasdotto. Per l’Italia tuttavia non si è presentato nessuno, un paradosso visto che la destinazione finale di EastMed dovrebbe essere la Puglia e visto che Igi Poseidon – la società che promuove il tratto finale del gasdotto – è una joint venture tra la “nostra” Edison (in realtà controllata dalla francese Edf) e la greca Depa.
I dubbi del Governo gialloverde
Il memorandum d’intesa per EastMed era stato firmato in pompa magna proprio a Roma, nel dicembre 2017. Ma all’epoca era Matteo
Renzi a guidare il Governo, con Carlo Calenda come ministro dello Sviluppo economico. L’attuale esecutivo ha un atteggiamento molto più ambiguo e conflittuale nei confronti dell’opera. E sarebbe proprio per questo che l’appuntamento di Gerusalemme, troppo vicino alle elezioni europee,
è stato snobbato.
La Lega è a favore di EastMed e il vicepremier Matteo Salvini lo scorso dicembre durante una visita in Israele lo ha detto chiaramente: «Credo in questo progetto e invito le imprese italiane a parteciparvi, avere maggiori forniture di gas aiuta a ridurre il costo della bolletta per gli italiani». Il Movimento 5 Stelle, che ha già dovuto digerire il via libera al Tap, d’altra parte risente delle pressioni degli ambientalisti: una trentina di associazioni hanno scritto al premier Giuseppe Conte, al vice Luigi Di Maio e al ministro dell’Ambiente Sergio Costa invocando uno stop al progetto. Costa ha ordinato una nuova valutazione di impatto ambientale.
EastMed a dire il vero non è del tutto scomparso dall’orizzonte del Governo: il nuovo Piano nazionale energia e clima al 2030, su cui il Mise ha appena avviato la consultazione pubblica, continua ad annoverarlo tra le opere su cui «si sta procedendo» per incrementare la diversificazione delle forniture di gas. Tuttavia il Piano afferma anche che la pipeline «potrebbe non rappresentare una priorità visto che gli scenari di decarbonizzazione possono essere attuati tramite le infrastrutture esistenti e il Tap».
Nel testo non viene mai menzionato, nemmeno una volta, l’obiettivo di rendere l’Italia un hub del gas, che era invece uno dei pilastri della vecchia Strategia energetica nazionale (Sen).
La centralità dell’Egitto
Anche l’Eni intanto non fa mistero di preferire altre soluzioni per esportare il gas di Zohr e in prospettiva eventualmente
quello cipriota. EastMed costerebbe caro – tra 5 e 7 miliardi di euro, stima Edison – e faticherebbe ad essere ripagato,
a meno di sussidi, perché il gas giungerebbe in Italia con prezzi poco competitivi. Nessuna società privata – né compagnie
petrolifere, né utilities né banche – ha finora espresso l’intenzione di investirvi, anche se la Ue è disposta a confinanziarlo
come Progetto di interesse comune (Pic) in ambito energetico e ha già versato finora 36,5 milioni di euro.
La soluzione naturale per il Cane a sei zampe – giudicata la più razionale e conveniente anche da molti analisti – sarebbe il gas liquefatto. L’Egitto stesso, appena tornato ad essere esportatore netto di gas, preme per diventare un hub, attirando anche le forniture da Israele e Cipro per trasformarle in Gnl nei due impianti che già possiede e che per anni sono rimasti inutilizzati. Quello di Damietta peraltro è partecipato dall’Eni, attraverso Uniòn Fenosa Gas (Ufg), joint venture paritaria con la spagnola Naturgy.
Se vincesse la soluzione Gnl, l’Italia potrebbe acquistare con maggiore flessibilità, ma sui volumi – e soprattutto sui prezzi – saremmo costretti a competere con il resto del mondo, compresa la Cina e altri giganti asiatici assetati di gas. Rischiamo insomma di dover pagare di più, anche se sul mercato nei prossimi anni è previsto un forte aumento dell’offerta di gas liquefatto, con gli Usa ben decisi a piazzare i loro carichi nel «cortile di casa» della Russia.
L’Italia sembra d’altra parte condannata a pagare più care anche le forniture da Mosca, che oggi soddisfano oltre un terzo del nostro fabbisogno e di cui continueremo per anni ad avere estrema necessità. Su questo fronte siamo vicini a perdere ben due partite: una con la Germania e un’altra con i Paesi balcanici.
Trappola tedesca sul gas russo
Il Nord Stream 2 – gasdotto nel Mar Baltico con cui Mosca potrà bypassare l’Ucraina – è quasi completato nonostante l’ostilità
di Ue e Usa, che addirittura minacciano sanzioni. E per completare le sue strategie energetiche la Germania ha anche avviato una riforma delle tariffe di trasporto del gas, che sposta una quota significativa di oneri sui punti di uscita delle forniture verso l’estero.
Il commisario Saglia dell’Arera – che ha sollecitato il Governo e la Confindustria a reagire in difesa dei nostri interessi, anche presso l’Antitrust – ha denunciato che l’Italia rischia di pagare 500 milioni di euro in più nel 2019 e altrettanti nel 2020. Poi, con Nord Stream 2, il conto diventerà ancora più salato.
Anche la prospettiva di attirare gas russo dalla rotta Sud sta tramontando. Ufficialmente Gazprom deve ancora scegliere se far proseguire il Turkish Stream verso il nostro Paese (magari connettendolo al Tap) o se invece optare per una diramazione verso Bulgaria, Serbia e Ungheria, da dove il gas potrebbe proseguire per l’Italia via Austria, ovviamente maggiorato dei costi di trasporto.
In realtà Sofia – che guarda caso aspira a costruire un hub del gas – questo mese ha bandito le prime gare di appalto per il tratto di pipeline che vorrebbe far transitare nel suo territorio. Un’accelerazione che potrebbe mettere Gazprom di fronte al fatto compiuto.
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