Dopo oltre un decennio di sfrenata espansione dell’offerta sembra incredibile, ma l’industria siderurgica oggi rischia di andare incontro a un deficit di minerale di ferro. I maggiori fornitori mondiali continuano infatti a tagliare le stime di produzione (ultima ieri Rio Tinto), aggravando un bilancio già reso precario dal crollo della diga di Brumadinho, che ha costretto Vale a chiudere molte miniere in Brasile.
La materia prima dell’acciaio è rincarata di oltre il 30% quest’anno e sul mercato spot cinese – che fa da benchmark anche per il resto del mondo – si è spinta sopra 95 dollari per tonnellata, ai massimi dall’estate 2014. E nel settore molti si aspettano ulteriori aumenti di prezzo.
I danni provocati dai cicloni nel Western Australia e da un incendio al porto di Cape Lambert si sono rivelati più gravi di quanto inzialmente stimato per Rio Tinto, che ora prevede di esportare 333-343 milioni di tonnellate nel 2019 invece dei 338-350 milioni indicati in origine.
Anche l’altra big australiana, Bhp Billiton, ha segnalato la perdita di 6-8 milioni di tonnellate di minerale di ferro a causa del ciclone Veronica. Ma la situazione più critica – e dagli sviluppi più incerti – riguarda la brasiliana Vale, primo fornitore mondiale della commodity siderurgica, che dopo il disastro del 25 gennaio ha dovuto sospendere l’utilizzo di oltre dieci dighe e fermare numerose miniere, compresa Brucutu che da sola genera l’8% del suo output.
Allo stato attuale Vale denuncia un calo di produzione annualizzato di 93 milioni di tonnellate, quasi un quarto rispetto al target indicato prima dell’incidente. La società avverte che le sue forniture, anche dando fondo alle scorte, potrebbero ridursi di 50-75 milioni di tonnellate, ossia fino al 20%.
Negli ultimi 10-15 anni Vale, Bhp e Rio hanno investito decine di miliardi per sviluppare nuove miniere di ferro e soddisfare l’enorme crescita dei consumi in Cina, dove oggi si concentra il 70% della domanda. A livello globale le estrazioni di ferro sono cresciute in media del 4,5% annuo tra il 2009 e il 2018, stima Fitch, arrivando a sfiorare 3.300 milioni di tonnellate e solo nel Western Australia la produzione è addirittura quadruplicata dal 2003, superando 800 milioni di tonnellate. Eppure quest’anno l’offerta rischia di non bastare.
In molti hanno cominciato a suonare l’allarme su un possibile deficit. Morgan Stanley parla di un «buco nelle forniture via mare», Citigroup è convinta che nella seconda metà dell’anno si svilupperanno carenze di minerale di ferro in grado di spingere i prezzi ben oltre 100 dollari per tonnellata.
Anche Andrew Forrest, fondatore e ceo di Fortescue Metals, avverte che «dobbiamo fronteggiare la realtà di un potenziale deficit» mentre Lourenco Goncalves, ceo di Cleveland Cliff, il maggior fornitore Usa, afferma di non riuscire a soddisfare le richieste dopo il disastro alla diga di Vale, il cui impatto è stato «completamente sottovalutato».
L’allarme più forte arriva però dalla Cina, dove la produzione di acciaio ha ripreso a correre, mentre molte miniere vengono chiuse per motivi ambientali. Il fondatore della società di ricerca Steelhome, Wu Wenzhang, è certo che ci sarà un deficit di ferro e avverte del rischio di una «devastante volatilità» dei prezzi se le scorte cinesi scenderanno sotto 100 milioni di tonnellate (al 12 aprile erano stimate a 144 milioni). Le conseguenze sarebbero gravi per le acciaierie cinesi e ancora di più, secondo Wu, per quelle in Europa e Medio Oriente.
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