L’assalto all’oro da parte delle banche centrali prosegue anche nel 2019. Dopo il boom di acquisti dell’anno scorso – un record da oltre cinquant’anni, legato in buona parte alla diversificazione dal dollaro – il settore ufficiale nel primo trimestre ha accumulato altre 145,5 tonnellate di lingotti, l’incremento più forte dal 2013 per questo periodo dell’anno.
Nei dodici mesi fino a marzo 2019, osserva il World Gold Council (Wgc), le banche centrali nel complesso hanno aumentato le riserve auree di 715,7 tonnellate, per un valore di quasi 30 miliardi di dollari.
Solo a prima vista il fenomeno sta rallentando. Se è vero che gli acquisti netti sono stati inferiori a quelli degli ultimi trimestri del 2018 (ce n’erano stati per 165,6 tonnellate nel quarto e per ben 253 tonnellate nel terzo) il Wgc spiega di aver incluso nel conteggio – considerandolo una vendita di riserve – anche le 42 tonnellate di oro perse dal Venezuela quando a fine marzo è scaduto uno swap che aveva sottoscritto nel 2015 con Citibank. L’operazione per ora non è stata comunicata al Fondo monetario internazionale, da cui il World Gold Council deriva i dati per le sue statistiche.
A trainare gli acquisti di oro è stata ancora una volta la Russia, con 55,3 tonnellate tra gennaio e marzo, che hanno portato le sue riserve auree a 2.168,3 tonnellate. L’oro costituisce ormai il 19% delle riserve della banca centrale russa. La quota in dollari viceversa è crollata, riducendosi al 22% a fine 2018 secondo Bank of America Merrill Lynch, dal 46% di metà 2017.
L’abbandono del biglietto verde è deliberato e destinato a proseguire. Sergey Shvetsov, vice governatore della banca centrale russa, il mese scorso ha affermato che è necessario «aumentare ancora di più le riserve in oro» di fronte al «persistente rischio di sanzioni» da parte degli Stati Uniti.
Anche la Cina, impegnata in una guerra dei dazi con gli Usa, ha accumulato altre 33 tonnellate di oro nel primo trimestre, dopo che era tornata ad acquistare a dicembre 2018 dopo una pausa di oltre due anni.
L’India è un altro nuovo acquirente, che promette di non essere occasionale. La banca centrale – tornata sul mercato dopo 9 anni nel 2018, con un incremento di 42 tonnellate – ha comprato altre 8,4 tonnellate tra gennaio e marzo. Probabilmente non è una coincidenza che Donald Trump abbia cominciato di recente a minacciare anche New Delhi sul fronte degli scambi commerciali.
Sempre nel primo trimestre il Wgc segnala acquisti di oro significativi anche da parte di altri Paesi: oltre ai “soliti” Kazkhstan e Turchia, ci sono anche l’Ecuador (per la prima volta dal 2014), il Qatar e la Colombia.
L’accumulo di riserve auree si è confermato uno dei principali fattori di traino per la domanda di oro, che nel trimestre è cresciuta del 7% a 1.053 tonnellate. L’altro “motore” è stato quello degli investimenti, con un aumento dei flussi verso Etf e prodotti analoghi del 49% (40,3 tonnellate), in gran parte concentrato in Gran Bretagna, probabilmente per le inquietudini legate alla Brexit.
L’appetito degli investitori tuttavia ha cominciato a spegnersi fin da febbraio e oggi il patrimonio degli Etf è ai minimi dell’anno secondo Bloomberg, mentre gli speculatori al Comex sono tornati a scommettere contro l’oro: l’esposizione netta la settimana scorsa è diventata corta (alla vendita), con ripercussioni sulle quotazioni del metallo, che ieri sono scivolate fino a 1.265,85 dollari l’oncia, il minimo da 4 mesi .
A dare il colpo di grazia è stata la Federal Reserve, o meglio i commenti del governatore Jerome Powell, che ha escluso qualsiasi variazione dei tassi nei prossimi mesi.
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