Il cambiamento climatico rischia di costare quasi mille miliardi di dollari alle imprese, di cui più della metà nei prossimi cinque anni. E si tratta di una stima per difetto, poiché è frutto delle valutazioni di appena 215 Blue Chips: le sole che abbiano voluto elaborare (e svelare) una previsione tra le 500 società a maggiore capitalizzazione nel mondo.
Lo stesso gruppo di società – che comprende colossi bancari e hi-tech, compagnie petrolifere e multinazionali del Food & beverage – nel suo insieme non è comunque pessimista come potrebbe sembrare.
Al contrario, è convinto che dal climate change e dalla transizione energetica deriveranno anche nuove opportunità di business, per un valore di ben 2.100 miliardi di dollari: più del doppio rispetto ai potenziali danni o costi extra. Si prevedono affari d’oro con le energie rinnovabili e con le auto elettriche, ma anche – è il caso di Eli Lilly – con la vendita di farmaci contro le malattie infettive, la cui diffusione è favorita dalle temperature elevate. Dati e osservazioni emergono da un’analisi del Carbon Disclosure Project (Cdp), ong londinese che per la prima volta ha ottenuto una quantificazione del climate risk – e della climate opportunity – da parte delle società monitorate.
RISCALDAMENTO GLOBALE / Perché mezzo grado in più fa tutta la differenza del mondo
In tutto sono state quasi 7mila a rispondere al questionario, che da quest’anno è allineato agli standard di trasparenza proposti dalla Task Force on Climate-related Financial Disclosure (Tcfd), organismo creato nel 2015 dal G20 in seno al Financial Stability Board con l’obiettivo di mobilitare la comunità finanziaria contro una delle minacce più gravi che incombono sull’economia globale (oltre che sull’ambiente).
Alluvioni, siccità, incendi e altre calamità sono sempre più frequenti e pesano su numerosi settori, dall’agricoltura alle assicurazioni. L’impegno a difesa dell’ambiente potrebbe intanto portare a scelte politiche tanto drastiche da rendere antieconomico lo sfruttamento di miniere di carbone o giacimenti di petrolio. La stima degli oneri extra dovuti al riscaldamento del Pianeta o alle misure per prevenirlo –970 miliardi di dollari per la precisione, di cui 490 considerati un esborso probabile, molto probabile o quasi certo – «è enorme ma è chiaro che è solo la punta di un iceberg», avverte Bruno Sarda, presidente della divisione nordamericana di Cdp. Tra le società che hanno esplicitato i rischi, che vanno dalla necessità di pagare pesanti carbon tax all’accresciuta possibilità di subire disastri meteorologici, la maggioranza ha sede in Europa: è qui che in modo poco verosimile si concentrerebbe il 66% dei rischi, contro appena il 10% negli Usa.
Colpisce in particolare l’assenza totale di disclosureda parte di alcuni big statunitensi, come le major petrolifere ExxonMobil e Chevron, anche se hanno risposto all’appello i pesi massimi di Wall Street – Microsoft, Apple, Amazon e Alphabet – e le maggiori banche, tra cui JpMorgan. Tra i settori stravince per trasparenza quello dei servizi finanziari, anche se Cdp fa notare che forse ha perso di vista una parte dei rischi, perché evidenzia quasi esclusivamente quelli in capo ai clienti. Ancora più forte è il dubbio di sottovalutazioni da parte delle società che producono combustibili fossili: chi ha risposto al questionario vanta potenziali opportunità di business per 140 miliardi di dollari a fronte di rischi per appena 25 miliardi.
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