Economia

Al palo un indotto italiano da 2,5 miliardi

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Industria

Al palo un indotto italiano da 2,5 miliardi

Un esercito di quasi 4mila imprese, di cui circa 2mila sono concentrate nelle sole Lombardia e Piemonte. Una radiografia dei fornitori Ilva conferma le preoccupazioni e il nervosismo di molte realtà della filiera siderurgica italiana. I trasportatori e i fornitori di prossimità sono solo la punta dell’iceberg del problema che si è venuto a creare con il commissariamento del gruppo. Oltre i confini della Puglia ci sono migliaia di attività che, in diversa misura, stanno rischiando molto in queste settimane. Ora si tratterà di capire come il Governo interverrà, con quali emendamenti e con quali misure, a sostegno delle imprese ritenute strategiche per il prosieguo dell’attività.

Ai fornitori di Ilva va ricondotto oggi un volume d’affari di oltre 2,5 miliardi di euro. Tralasciando, però, le funzioni connesse alle attività doganali (che pesano quasi per il 50% di questo volume, e che sono concentrate tutte in Puglia), la cifra che vede coinvolte le piccole e medie imprese italiane è di poco inferiore agli 1,5 miliardi di euro. Tra le «fette» più importanti, circa 350 milioni riguardano gli appalti, altri 200 milioni sono riferiti alle materie prime, 400 milioni sono connessi alla gestione della filiera dell’energia, un centinaio di milioni se ne va in ricambistica. I servizi valgono circa 30 milioni, così come gli smaltimenti. La distribuzione geografica dei fornitori dell’Ilva vede una netta predominanza delle imprese del nord Italia: qui è attivo il 75% della filiera, concentrato soprattutto in Lombardia (dove sono attivi più di 1.500 fornitori dell’Ilva), Piemonte, Veneto e Liguria. La seconda regione per importanza è la Puglia. Lombardia e Puglia (in quest’ordine) sono anche le principali regioni per provenienza delle aziende titolari di appalti: in questi due territori è concentrato circa l’ottanta per cento di queste forniture.

Ma non è solo la filiera a monte dell’Ilva ad essere in tensione. Ci sono anche i commercianti di acciaio: comprano i coils, li spianano, li trasformano e li vendono al distributore finale. Centinaia di aziende, dalle piccole realtà fino ad imprese con un centinaio di milioni di fatturato, esattamente a metà strada tra chi l’acciao lo produce (in questo caso Ilva) e chi lo utilizza quotidianamente per le proprie produzioni (la media industria metalmeccanica: aziende che costruiscono macchine utensili, elettrodomestici, macchinari per l'industria alimentare, arredamento per uffici). Una catena fondamentale per l’intero manifatturiero italiano che rischia seriamente di spezzarsi se i trasportatori non sospenderanno l’agitazione (dopo le rassicurazioni del Governo sono in corso le trattative tra i leader della protesta).

«Il blocco - spiega Michele Ciocca, amministratore delegato di Ciocca Lamiere di Arcore, in provincia di Monza e Brianza – ha impedito in questi giorni le consegne dei prodotti finiti ai clienti. Ilva sta già affrontando un grave problema di liquidità: se in aggiunta vengono impedite le spedizioni e le conseguenti fatturazioni si possono immaginare le conseguenze». Ciocca è presidente della divisione Acciai di Assofermet: circa 700 aziende di diverse dimensioni, per la maggior parte clienti di Ilva, che si occupano della trasformazione e della distribuzione, lungo tutto la Penisola, dell’acciaio tarantino. «L’80% degli associati lavora con il gruppo – spiega Ciocca –. La situazione è drammatica: ci sono stabilimenti Ilva, come per esempio quello di Novi Ligure, che hanno dovuto fermare da una settimana la trasformazione dei coils a caldo, perché non c’è più spazio per stoccare i prodotti finiti».

Nonostante i pesanti disagi subiti, il leader di Assofermet Acciai giudica però legittima l’azione degli autotrasportatori. «Hanno tutto il diritto di protestare per i ritardi dei pagamenti – spiega - ma sbagliano obiettivo: rischiano di rendere ancora più grave una situazione già prossima al collasso».