Economia

La politica estera Eni sull’asse Nord-Sud

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LE STRATEGIE DELL’ENERGIA

La politica estera Eni sull’asse Nord-Sud

Da un lato, il percorso inaugurato con il suo approdo al vertice del gruppo imperniato sulla rifocalizzazione del gruppo sull’upstream, sulla ristrutturazione degli altri business e sullo snellimento della macchina. Dall’altro, la capacità di continuare a mietere successi, a partire dall’ultimo colpo centrato in Egitto, mettendo a frutto le solide competenze e gettando le basi per un ulteriore consolidamento, con la rotta puntata verso l’Africa e verso il corridoio Nord-Sud del gas che rovescia vecchi assi ed equilibri ormai datati. È l’Eni targata Claudio Descalzi (foto) e la sua «politica estera», che ieri l’ad ha ripercorso al Festival della diplomazia, intervistato dal direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano.

Davanti alla platea del festival, al suo segretario generale Giorgio Bartolomucci e al presidente del comitato scientifico Giampiero Massolo, il numero uno di Eni, Claudio Descalzi, ha quindi messo in fila le tappe principali della «trasformazione costruttiva» che porta la sua firma. «Il primo punto - spiega il top manager - è stato semplificare la macchina, per renderla più leggibile agli occhi del mercato, e questo ha significato, come prima cosa, identificarci come una società oil and gas, ristrutturando e portando a profitto quei business che avevano perso molto negli ultimi anni. Lo abbiamo fatto rifocalizzandoci su alcune componenti della raffinazione e della chimica, sulle specialities e abbiamo scelto di andare verso prodotti verdi, da Porto Marghera a Venezia, da Porto Torres a Gela, dove abbiamo raggiunto un accordo storico».

Insomma, la scelta di revisionare profondamente quei segmenti, il mid e il downstream, ha pagato. Certo Descalzi non nasconde le difficoltà di un percorso delicato, ma rivendica di averlo portato a termine «senza mandare a casa nessuno». «Quando si presenta un piano di efficienza si parla sempre di tagli e si pensa che quella sia la soluzione», scandisce l’ad di Eni, conscio che la sua scommessa è andata invece in porto «senza toccare gli organici, ristrutturando la forza lavoro». Parla Descalzi, con una punta di legittimo orgoglio, di «trasformazione costruttiva e non distruttiva», facendo leva anche sull’expertise dell’Eni, che è poi uno dei suoi punti di forza.

Quella forza che, in un mercato zavorrato dal prezzo del petrolio, ha consentito all’Eni di continuare a marciare a pieni giri nell’esplorazione e nella produzione. L’ultimo tassello di questa marcia si chiama Zohr, con i suoi 850 miliardi di metri cubi di gas di potenziale. Ma guai a pensare che l’Egitto possa diventare un fornitore alternativo ad altre tessere del Nord Africa come Libia e Algeria. «Rimangono pilastri per la nostra crescita futura - aggiunge l’ad - e ora ne abbiamo aggiunto un terzo». Il motivo per cui quest’ultima scoperta è destinata a diventare cruciale, come tutto il paese, è ormai chiaro. «Perché è gas e dunque meno inquinante, ma anche perché è avvenuto in un paese che ha già tutte le infrastrutture per il trattamento e l’export». All’Egitto l’Eni è legata dal 1954, il primo paese in cui sbarcò Enrico Mattei e il primo a sperimentare quella formula che va sotto il suo nome e che ha consentito al gruppo di farsi largo lì e non solo. «È un giovane bimbo - dice Descalzi - entrato bene in un corpo già strutturato e forte e questo ci permetterà di sviluppare in modo molto veloce».

Un traguardo, quest’ultimo, che l’Eni conta di raggiungere già nel 2017 come chiede il governo del Cairo che su Zohr scommette per affrancarsi definitivamente dal punto di vista energetico. Ma da quel campo, e questo Descalzi lo rimarca con forza, sollecitato dalle domande del direttore Napoletano, può arrivare una sponda importante per l’Europa, per la sicurezza energetica del Vecchio Continente e per la sua futura diversificazione negli approvvigionamenti. Senza contare che quel gas potrebbe essere un fattore di stabilizzazione per l’intera area. «Lo sforzo è far diventare l’Egitto un hub per l’export di gas di altri paesi che non hanno infrastrutture», a partire da Cipro e Israele (dove Descalzi si recherà prossimamente), gli stati limitrofi, sfruttando proprio i benefici di Zohr e la forza nuova dell’Egitto .

Un tassello che risulterà strategico anche alla luce di quel corridoio Nord-Sud - su cui l’ad insiste da tempo - che rappresenta un rovesciamento del vecchio asse est-ovest e che consentirebbe all’Europa di sviluppare altresì l’enorme potenziale, in termini di infrastrutture, di Italia e Spagna, ma permetterebbe anche all’Africa di sviluppare energia per se stessa e di esportare: «Questo canale non è solo energetico, è un canale di sviluppo sociale e di crescita per quel continente». Dove, Descalzi ne è convinto, sia l’Eni che l’Italia «hanno un futuro», che il gruppo dovrà costruire «pensando al profitto ma anche alla creazione di valore», attraverso quel combinato disposto fatto di business e di affiancamento allo sviluppo dei paesi in cui opera che è ormai radicato nel suo dna.

Certo, al di là del Mediterraneo, alcune tessere devono ancora andare al loro posto, ma Descalzi è fiducioso. «In Libia, visto il ruolo fondamentale nel Mediterraneo e quello di cardine verso il Medioriente, penso che si deve trovare una soluzione e sono positivo nel medio-lungo termine». Mentre in Iran, un eventuale ritorno avverrà «se ci saranno le condizioni contrattuali, fiscali e di gestione degli asset coerenti con la necessità di attirare gli investitori». E, sulla partita degli 800 milioni di dollari di crediti vantati nei confronti del paese, la chiusura è vicina? «Siamo agli sgoccioli. Il montante non è proprio quello sperato, ma l’importante era chiudere bene, adesso che voltiamo pagina, la fine dell’ultima e penso che riusciremo a farlo nelle prossime settimane».

La rotta futura, insomma, è tracciata senza eccessivi scossoni, conservando anche rapporti ormai consolidati, come quello con la Russia. Ora, però, dietro l’angolo ci sono nuove sfide, come il prossimo appuntamento della conferenza sul clima di Parigi, cui l’Eni guarda, forte dell’accordo siglato con nove “sorelle” per una strategia comune sulle emissioni. «Tutti quelli che hanno parlato di obiettivi, di riduzione della crescita della temperatura mondiale, delle emissioni e del gas flaring ne hanno solo parlato. L’Europa, invece, ha fatto molto». Ma ora viene il difficile. «Se non si passa dalla consapevolezza all’azione reale, che vuol dire tassare chi produce più Co2, non si va da nessuna parte e la tassazione deve essere a livello globale». E l’Europa dovrà far sentire la sua voce a Parigi convincendo gli altri, incalza l’ad, «a seguire il suo esempio».

Quanto ai prossimi passi per l’Eni, Descalzi va avanti, confortato dall’apprezzamento degli investitori che hanno riconosciuto la bontà delle scelte e incamerato sostanziosi rendimenti. «Il modello vincente è quello di costruire qualcosa per il futuro, creando valore nel lungo termine». E dovrà farlo fronteggiando un prezzo del barile che stenta a risalire: «Il mercato oscillerà - precisa - fino quando l’offerta sarà superiore alla domanda e oggi lo è per 1,7 milioni di barili al giorno. C’è una volatilità che è legata al barile fisico, ma è soprattutto legata al barile cartaceo e, finché non torniamo alla parità fisica, questa dinamica continuerà». E il prezzo? «Siamo in balia di posizioni corte e di chi specula sul brevissimo. Credo che per almeno un anno e mezzo e due, soffriremo di questa malattia. Secondo me, anche l’Opec e i grandi produttori devono capire che queste situazioni di instabilità fanno male a chi investe tantissimo e anche ai consumatori nel medio termine. Penso che rimarremo ancora nel 2016 su prezzi bassi. Le previsioni ci fanno pensare che nel 2017, più avanti, andremo verso i 70-80 dollari, sperando - chiosa l’ad - che non ci sia una scalata troppo veloce che fa male».

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