
All’indomani della pubblicazione del bando, è iniziato ad impazzare, sia negli ambienti governativi che in quelli finanziari, il «calciomercato» per capire chi, tra i big player internazionali, potrebbe manifestare interesse per Ilva.
Una delle piste in particolare, quella legata a Posco, starebbe acquistando maggiore concretezza: nei giorni scorsi è stata segnalata la presenza a Roma, negli uffici del Governo, di alcuni emissari del gruppo. Ieri intanto è stato approvato l’emendamento del Governo al decreto Ilva che prevede la possibilità per i commissari di contrarre finanziamenti statali per 800 milioni al fine esclusivo dell’attuazione degli obiettivi di tutela ambientale. Aumenta, nel frattempo, il favore degli imprenditori italiani, chiamati dal Governo a provare a comporre una cordata italiana imbastita finanziariamente sulla Cassa Depositi e Prestiti, intorno all’ipotesi di un uomo forte come Paolo Scaroni alla guida dell’Ilva. E, così, assume una consistenza maggiore il pressing, morbido ma perseverante, che il Governo – nelle persone del premier Matteo Renzi e del ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi – ha iniziato un mese e mezzo fa – su suggerimento anche di alcuni degli imprenditori interpellati – e ha intensificato sull’ex amministratore delegato dell’Eni nel periodo natalizio, in concomitanza con la predisposizione del bando per l’asta dell’Ilva.
L’Italia non è una terra incognita per Posco. Del gruppo asiatico si era già parlato in occasione del tentativo di vendita di Acciai speciali Terni da parte della finlandese Outokumpu (che poi la cedette a ThyssenKrupp, da cui l’aveva rilevata in precedenza). L’acciaio sudcoreano ha già incontrato anche la vicenda Ilva. Prima che Fca – su richiesta esplicita di Renzi a Marchionne – tornasse ad acquistare – non senza alcune criticità - i prodotti di Taranto, l’ufficio acquisti del gruppo torinese aveva smesso di approvvigionarsi con l’Ilva per il Renegade e la 500 X in produzione a Melfi, preferendo appunto i prodotti coreani.
Il gruppo asiatico, che in Italia ha già una testa di ponte rappresentata da un centro lavorazione da 50mila tonnellate annue localizzato a Vallese di Oppeano (la Verona Posco ltpc), è molto ben posizionato nella produzione di coils, soprattutto a supporto della cantieristica navale e del mercato dell’auto. Proprio il governo di quest’ultimo segmento, come si è visto nel caso di Melfi, potrebbe essere uno dei motivi che spingerebbero Posco ad interessarsi al dossier Ilva: una base impiantistica in Europa potrebbe essere strategica per qualificare meglio le forniture nei confronti dei produttori europei, anche e soprattutto in relazione al mercato asiatico.
Posco può vantare un know how tecnologico avanzato: è tra i soggetti che hanno sviluppato la tecnologia Corex (declinandola in Finex), che permette in estrema sintesi di produrre ghisa senza l’utilizzo delle cokerie.
Per quanto riguarda Scaroni, il manager conosce bene il mondo della siderurgia: dal 1985 al 1996, è stato vicepresidente e amministratore delegato della Techint, la società della famiglia Rocca. Da metà del 2014, è vicepresidente di Rothschild. La banca d’affari inglese, nell’estate di quell’anno, è stata scelta come advisor dell’Ilva dal commissario Piero Gnudi. Sarà interessante verificare se, nei prossimi giorni, il favore incontrato da diversi siderurgici italiani e le profferte del Governo a Scaroni faranno o no breccia nelle scelte personali del manager vicentino, che ha una statura tale non soltanto per ridurre l’impatto strutturale di una cordata composta da imprenditori italiani privi di soldi veri e incardinata su una Cdp limitata nella sua forza finanziaria da vincoli statutari nell’impiego del risparmio postale, ma anche per ricucire eventuali rivalità fra imprenditori che non sempre – per usare un eufemismo – sono andati d’amore e d’accordo nella loro storia.
Il profilo di Scaroni appare infine coerente anche con una ipotesi da «worst case scenario», qualora alla fine – nonostante tutti gli sforzi – la cordata italiana non prendesse forma e le altre offerte non persuadessero, così da richiedere un secondo tempo – dopo il 30 giugno – a totale capitale pubblico, in grado di non fare fallire definitivamente la già prostrata Ilva.
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