Era il 26 luglio del 2012, quattro anni fa. Una data simbolo per Taranto e per l’Ilva. È il giorno in cui defragrò – ma le avvisaglie c’erano già da settimane – l'inchiesta giudidiziaria sull'inquinamento del siderurgico, la più grande acciaieria europea, 50 anni di vita passando dallo Stato al privato (Riva). Quel pomeriggio i Carabinieri, su disposizione del gip Patrizia Todisco, e a valle di una lunga inchiesta della Procura, piombarono nello stabilimento mettendo sotto sequestro gli impianti dell’area a caldo, ritenuti dallo stesso gip «fonte di malattia e morte».
Sequestro senza facoltà d’uso, scrisse il giudice, ma l’Ilva gli impianti ha continuato ad utilizzarli e anche il tentativo, da parte dei magistrati, di ricorrerere a tecnici esterni stranieri per fermarli, tale è rimasto. Troppo complesso lo stop totale, alto il rischio di mettere fuori gioco soprattutto gli altiforni, tante le tensioni sociali e occupazionali da fronteggiare, si disse allora. E infatti quel 26 luglio, mentre i Carabinieri apponevano sigilli “virtuali” alla fabbrica ed effettuavano i primi arresti (otto persone ai domiciliari, tra cui il patron dell’Ilva, Emilio Riva, il figlio, Nicola, sino a pochi giorni prima presidente dell’azienda e l’allora direttore del siderurgico di Taranto, Luigi Capogrosso), un corteo di operai usciva dallo stabilimento e invadeva le strade alle porte della città. Sarà la prima di una lunga serie di proteste. Di lì a poco ci fu anche lo sciopero generale dell’ industria a Taranto: il 2 agosto del 2012 vennero infatti i leader sindacali Camusso della Cgil, Bonanni della Cisl e Angeletti della Uil. Un grande corteo dall’Ilva al centro della città, anche se quel giorno sarà ricordato più per la protesta, e l’irruzione in piazza con l’Apecar, del movimento antagonista dei “Liberi e Pensanti” (lavoratori Ilva, ambientalisti ma soprattutto ex delegati sindacali) che per la manifestazione sindacale.
Le tappe dell’inchiesta giudiziaria
Ma sequestri e arresti non si fermarono a quel 26 luglio. L’inchiesta avanzò, infatti, con ondate successive e a novembre dello stesso anno gli arresti, stavolta in carcere, scattarono per altri personaggi chiave della fabbrica: Fabio Riva, figlio di Emilio (ma non fu trovato: si costituirà a giugno 2015 rientrando in Italia da Londra dove si era nel frattempo rifugiato), e Girolamo Archinà, un consulente dell’Ilva, ritenuto però dai giudici il collegamento tra l’azienda, la politica, le istituzioni e i sindacati, almeno a livello locale. Era Archinà, per l’accusa, che trasmetteva i voleri dei Riva all’esterno e, attraverso una serie di pressioni, faceva in modo che si realizzassero.
Sempre a novembre del 2012 finì sotto chiave un ingente quantitivo di semilavorati e prodotti finiti dell’Ilva, pronti ad essere consegnati ai clienti che li avevano ordinati. Illecito profitto del reato, dissero i magistrati. E aggiunsero: sono stati fabbricati dall’Ilva con impianti che avrebbe dovuto tenere fermi perchè sequestrati senza facoltà d’uso. Su questo punto specifico si innesterà poi uno scontro durissimo tra Governo, subito in campo (premier era Mario Monti), e giudici.
Infatti, sebbene a dicembre dello stesso anno un decreto legge – il primo di una serie di dieci – disporrà, riconoscendo l’Ilva strategica per l’economia nazionale, che l’acciaieria deve continuare a produrre, anche per agevolare il suo risanamento ambientale, e che i prodotti possono essere commercializzati, coils e tubi resteranno comunque sotto sequestro. Intoccabili per l’azienda. Nei primi mesi del 2013, infatti, gip e Procura impugnano decreto e legge alla Corte Costituzionale. La loro opposizione sarà rigettata dalla Consulta ad aprile 2013 perchè infondata. Il sequestro dei materiali sarà revocato solo dopo il deposito delle motivazioni della Consulta mentre quello degli impianti si trasformerà con la possibilità d’usarli.
Giugno 2013, via ai commissariamenti
L’Ilva, però, rimane una pentola in ebollizione e a temperature elevate anche. A maggio 2013 scattano nuovi arresti (l’allora presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, per una questione legata alle discariche dell’acciaieria) e il gip Todisco dispone un maxi sequestro da 8 miliardi di euro sui beni e sui conti del gruppo Riva. Alla fine dello stesso anno il maxi sequestro verrà annullato dalla Corte di Cassazione su ricorso dei Riva, ma già pochi giorni dopo il provvedimento del gip, i Riva molleranno il cda dell’azienda. Impossibilità ad andare avanti con un sequestro del genere, diranno. Ai primi di giugno interviene così il Governo e, con un altro decreto, commissaria l’Ilva: arriva Enrico Bondi, poi affiancato da Edo Ronchi. Un anno dopo i due verranno sostituiti da Piero Gnudi e Corrado Carrubba. Ma non è finita: a gennaio 2015 l’azienda, con un’altra legge, va in amministrazione straordinaria e i commissari diventano tre: a Gnudi e Carrubba si affianca Enrico Laghi.
Conflitti tra giudici, azienda e Governo, pronunciamento della Consulta, decreti legge, offensiva dell’Unione Europea con inchieste e procedure di infrazione verso l'Italia, guerra legale su tutti i fronti dei Riva che si ritengono “espopriati” della loro azienda. C’è quasi di tutto in questi quattro anni. Rimane incompiuto, almeno per ora e malgrado più di una legge, il tentativo di prendere i soldi sequestrati ai Riva dalla Procura di Milano per altri reati e farli rientrare in Italia per darli all’Ilva affinchè siano spesi nella bonifica. Non è possibile fare una cosa del genere, obiettano i giudici svizzeri: i Riva non hanno nemmeno ottenuto la sentenza di primo grado.
La debacle dell’azienda tra conti in rosso e perdita di mercato
Ma questi quattro anni sono stati anche molto pesanti per l’Ilva sotto il profilo della gestione. Nessun licenziamento ma perdita di mercato e di clienti, conti in rosso, produzione al minimo: meno di 5 milioni di tonnellate l’anno scorso, quest’anno, se si continuerà a tenere l’attuale passo, si dovrebbe arrivare a 6 milioni. È difficile rimettere in piedi un'azienda “terremotata”: su questo convengono in molti. E oggi? In Corte d’Assise, a Taranto, si sta tenendo il processo per il disastro ambientale dell’Ilva: 47 rinviati a giudizio, da Fabio e Nicola Riva all’ex governatore pugliese Nichi Vendola, dall’ex presidente Ilva, Bruno Ferrante, all’attuale sindaco di Taranto, Ezio Stefàno (con imputazioni diverse).
Più corretto però dire che si sta tenendo un nuovo processo. Perchè il primo, cominciato a fine 2015, è subito “abortito”: la Procura individuò un errore nei verbali dell’udienza preliminare e quindi si è dovuto tornare al gup e a nuovi rinvii a giudizio. Ma anche il processo bis non ha avuto una partenza sprint: è complicato da gestire. Basti pensare che ci sono quasi mille parti civili. E il futuro dell’azienda? È ora in Senato, per la conversione in legge, l’ultimo decreto: quello sulla cessione. Nel frattempo scaldano i motori le due cordate in campo: Arcelor Mittal con Marcegaglia e Arvedi con Cassa Depositi e Prestiti e Delfin di Leonardo Del Vecchio. Agli inizi del 2017 si saprà chi si è aggiudicato l’Ilva. Mentre a Taranto, giusto per ricordare quel pomeriggio di quattro anni fa, oggi è il sindacato Usb a scioperare. Richiesta? Un bonus pubblico che consenta ai lavoratori Ilva ad andare in pensione prima perchè, dice il sindacato di base, il risanamento ambientale non c’è stato.
© Riproduzione riservata