La plastica per le bottiglie e l’alluminio. La minuteria metallica (alias, viti e bulloni) e la carta grafica (per giornali e riviste). Passando per piastrelle, fibra di vetro e biciclette. Attenzione a pensarli di nicchia. Perché spesso sono lavorazioni labour intensive, cioè a forte impiego di manodopera. Se l’Europa – e soprattutto l’Italia – riescono oggi ancora a produrli è anche grazie ai dazi antidumping ( non di rado assieme a quelli antisovvenzione) che Bruxelles ha, negli anni, imposto alle importazioni dalla Cina (mentre il comparto dei pannelli solari ha fatto in tempo a soccombere).
Materie di base, semilavorati, componentistica e prodotti finiti che la Cina ha esportato – sottocosto – per anni, con sconti sino al 70-90% rispetto ai “listini prezzi” di Ue, Usa e Giappone. Per un po’ ci è riuscita. Finché i dazi non hanno riequilibrato le asimmetrie. Non si impedisce a quei prodotti di entrare, ma per farlo devono pagare in base a una percentuale che li riallinei ai prezzi internazionali di mercato, senza fare concorrenza sleale.
L’ultimo atto, nei giorni scorsi, quando sulla Gazzetta Ufficiale della Ue sono stati pubblicate le ultime “sanzioni” sull’acciaio – in particolar modo sui laminati a freddo – nei confronti della concorrenza sleale di Cina e Russia. Dazi che diventerebbe più lento e complicato calcolare se, a dicembre, il Wto riconoscesse la Cina “Economia di Mercato” (in inglese “Mes”, “market economy status”). Entro l’11 dicembre 2016, la Ue dovrà pronunciarsi – come tutti i membri dell’Organizzazione mondiale del Commercio – sul ricoscimento ufficiale alla Cina del “market economy status” (Mes).
La Ue – decidendo a metà luglio di non prendere una posizione netta – ha però affermato che metterà da parte la lista con le 5 regole per stabilire se il “Dragone” è un’economia di mercato o no (che Bruxelles stessa si era data da sola). Ma rivedrà i criteri “non standard” per calcolare i dazi antidumping di tutti i Paesi (Cina inclusa) che tentano di importare sottocosto.
La road map prevede la modifica, entro un anno, della metodologia antidumping e l’abolizione, appunto, della lista dei Paesi che non sono considerati economie di mercato. Questo permetterà di imporre in modo più rapido i dazi e di valore più alto, calcolandoli con riferimento a prezzi internazionali e non a quelli che Pechino pratica in Paesi terzi o in Cina. Superando anche le differenze di approccio tra Usa e Ue. Oggi Bruxelles ci mette 12-15 mesi dalla “denuncia” delle associazioni di categoria ad applicare un dazio mediamente del 50 per cento. In Usa, la procedura dura 3 mesi e i dazi sul “Made in China” possono superare il 200 per cento.
Criteri più severi e iter più veloci dice la Commissione Ue. Ma è lecito dubitarne. Se ne discute dal 2013, senza che il Consiglio Ue abbia trovato una soluzione condivisa. Perché si riflettono le stesse divisioni che animano le discussioni sul “Made in” e sui provvedimenti a tutela dei produttori. Da un lato, l’Europa manifatturiera che vuole rafforzare e rendere più efficaci i dazi. Dall’altro, l’asse dei Paesi nordici, senza industrie da difendere e liberisti, anche perché spesso è dai loro porti che entra, legalmente, la merce.
Già critica Confindustria: «Il rischio è che la soluzione prospettata dalla Commissione dia luogo a un meccanismo talmente farraginoso e oneroso per le imprese europee da rivelarsi una concessione di fatto dello status di economia di mercato alla Cina».
Secondo i dati della Commissione Ue, tra dazi antidumping (55) e antisovvenzione (4), le misure in vigore sono oggi 59. Una quindicina riguardano la chimica (che colpisce maggiormente la Germania e dove sinora si sono per lo più concentrare anche le poche, circa 15, contromisure cinesi verso gli esportatori europei) e quasi altrettante riguardano la siderurgia. Si va dalle barre e tondini per il cemento armato (9,2-13%) agli ultimi dazi – sui laminati a freddo – che sono arrivati a febbraio (da 13,8% a 16%, ma se il laminato è inox si sale dal 20,9 al 25,2 per cento).
Circa il 70% dell’export cinese verso l’Europa è oggi gravato da misure antidumping o anti-sovvenzioni. E proprio l’Italia – sempre secondo la Commissione Ue – è il Paese che ne beneficia di più : circa il 40% delle imprese europee difese da dazi sono italiane.
Senza barriere, sempre secondo uno studio comunitario, l’Italia rischierebbe di perdere sino a 400mila posti di lavoro, il 28% di tutti quelli che si perderebbero nella Ue
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