
Se c’è un Paese, tra quelli del G20, che negli ultimi mesi si è distinto di più per le sue politiche di apertura verso i capitali stranieri, questo è l’India. Fdi Policy Circular, la Circolare sulle politiche per gli investimenti esteri del 7 giugno scorso: con questo atto sono stati liberalizzati i comparti del retail monomarca e quello alimentare, la farmaceutica, l’aviazione, la difesa e persino il settore finanziario.
Resisterà l’India di Narendra Modi, ai venti di protezionismo insufflati dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca? E sapranno resisteranno anche le altre più grandi economie della terra? La buona notizia è che, almeno fino a pochi giorni, hanno resistito.
Secondo il monitoraggio fatto dall’Unctad e dall’Ocse tra maggio e ottobre, fra i Paesi del G20 ben sei hanno aperto ancora di più le proprie frontiere ai capitali d’investimento internazionali, mentre solo tre hanno eretto nuove barriere. Qualcuno, invece, non ha fatto niente. E tra questi c’è l’Italia.
Gli investimenti esteri, in questo 2016, non saranno scoppiettanti e per la fine dell’anno è attesa una diminuzione dei loro flussi globali rispetto al 2015. Già nei primi sei mesi dell’anno, ricorda l’Unctad, i capitali globali sono calati del 5% rispetto al semestre precedente, e quelli verso i Paesi membri della Ue sono calati ancora di più. Ecco perché promuovere politiche di semplificazione delle normative sugli investimenti esteri o di incentivi all’ingresso dei capitali stranieri, in momenti come questo, diventa particolarmente importante per rilanciare l’economia.
Lo hanno capito e lo hanno messo in pratica, oltre all’India, per esempio anche l’Argentina e l’Arabia Saudita. La prima, ricordano gli esperti dell’Unctad, dal 2 luglio ha allentato i lacci all’acquisto di terreni agricoli da parte di proprietari stranieri. Riad, invece, ha portato dal 75% al 100% la quota di possesso straniero ammissibile per le società di commercio all’ingrosso.
Dal canto loro Cina e Stati Uniti, i due avversari per antonomasia sul ring del commercio globale, quasi in contemporanea a fine settembre hanno varato un alleggerimento dei requisiti necessari a un investitore estero per operare nei rispettivi Paesi: Pechino abolendo l’obbligo del bollino governativo per avviare alcune attività imprenditoriali; Washington invece semplificando le regole per chi entra nel business del broadcasting. Chiude la fila dei liberisti il Messico, che con un’apposita Risoluzione ha chiarito una serie di criteri fino ad allora ritenuti di difficile interpretazione da parte degli investitori esteri.
Fin qui i virtuosi. Perché tra i Paesi del G20, in questi ultimi mesi, c’è stato anche chi ha preconizzato i tempi di Trump e ha ceduto alle sirene del protezionismo. Come l’Australia, dove tre territori federali (New South Wales, Queensland e Victoria) hanno aumentato le tasse amministrative per gli stranieri che acquistano proprietà immobiliari. E come il Canada, a sorpresa: perché con una mano il suo premier Justin Trudeau ha aumentato il tasso di apertura del Paese siglando l’accordo bilaterale per gli investimenti con la Mongolia; invece con l’altra ha autorizzato la provincia della British Columbia ad aggiungere un’extra-tassa sulle transazioni immobiliari con gli stranieri.
E l’Italia? Dal punto di vista della normativa sugli investimenti esteri, ci dicono gli esperti Unctad-Ocse, da maggio a oggi non è entrato in vigore nulla di nuovo. Vero è che sul fronte degli accordi internazionali, come Stato membro dell’Unione europea, ha pur sempre siglato il Ceta, l’accordo economico e commerciale con il Canada. Ciò nonostante, sul fronte degli accordi internazionali per la promozione degli investimenti bilaterali, tra i Paesi del G20 l’Italia è quello con meno intese all’attivo: l’Unctad ne conta 88 al 14 ottobre 2016, contro le 135 della Germania e le 104 della Francia. Gli ultimi trattati per la promozione degli investimenti firmati nel mondo? Da maggio a oggi sono stati cinque: oltre a Canada-Mongolia, la Turchia ne ha siglati due (con la Somalia e con la Georgia), il Giappone lo ha firmato col Kenya e l’Unione europea con la Sadc, la Comunità degli Stati sudafricani che comprende Botswana, Lesotho, Mozambico, Namibia, Sudafrica e Swaziland
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