Gli accordi sui premi di risultato cominciano a conquistare anche le piccole e medie imprese dove non c’è rappresentanza sindacale. Facciamo parlare i numeri. Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero del Lavoro, gli accordi sui premi di produttività oggi attivi sono 11.539. Di questi 2.053 sono legati ad accordi territoriali. Siamo a un soffio dal 20%, quindi parliamo di un accordo su cinque e soprattutto «stiamo parlando di un incremento secco», osserva Pierangelo Albini, direttore dell’area Lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria.
A fare da spartiacque tra il prima, in cui i numeri erano irrisori, e l’oggi in cui si contano 2.053 accordi territoriali c’è «l’accordo del 14 luglio del 2016 tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, replicato anche dalle altre categorie, che consente di seguire una procedura per i premi di risultato anche nelle imprese dove non c’è rappresentanza sindacale e conseguentemente di detassare il salario di produttività – continua Albini -. Questo accordo ha consentito di detassare i premi anche nelle aziende dove non c’è contrattazione e oggi cominciano a vedersi i primi risultati». Il contesto in cui le imprese, anche le piccole e medie, si stanno muovendo è quello di Industria 4.0 che avrà un impatto sull’organizzazione del lavoro e sulle professionalità, oltre che sulla produttività. «Legare salari e produttività porterà vantaggi per le imprese e i lavoratori: la contrattazione potrà aiutare questo processo nella misura in cui non sarà ideologica», continua Albini.
Sbirciando tra le righe delle intese raggiunte nelle aziende e sui territori, i risultati, quelli oggettivamente misurabili, sono sempre più il convitato di pietra dei negoziati di secondo livello che hanno, tra gli altri, l’arduo compito di definire il premio. Un manager di una grande azienda delle telecomunicazioni pochi mesi fa si era complimentato, con sottile ironia, con i sindacati che erano riusciti a “strappare” il premio, sempre negli anni passati, pur in presenza di un tangibile peggioramento dei risultati. Quante volte aziende e sindacati hanno definito risultati piuttosto scontati da raggiungere e poi il premio, di risultato, appunto, raggiunti o non raggiunti i risultati lo hanno dato? Magari anticipandolo pro quota mensile l’anno precedente, salvo poi scoprire l’anno successivo che il target era stato mancato. Negli accordi di secondo livello vecchia maniera spesso era un po’ così. Qualcuno che per molti anni ha visto passare dalla sua scrivania la contrattazione di secondo livello di molte centinaia di imprese parla di accordi e trattative fotocopia, per cui quello che si otteneva in un’azienda lo si doveva avere anche nell’altra e il range di diversificazione era assai modesto. «La sfida di tutti, ai tempi di Industria 4.0, è legare salari e produttività. Ogni azienda deve fare tutto il possibile per cogliere la sfida di Industria 4.0 e un’attenta regia da parte delle parti sociali potrebbe essere utile. Quel che è certo è che non c’è più un vestito che va bene per tutti», continua Albini.
Quando si parla di secondo livello non si può non tenere conto della «necessità di bilanciamento tra ciò che deve dare il primo livello di contrattazione e ciò che deve dare il secondo - spiega Albini -. Il contratto collettivo nazionale di lavoro dà una certa qualità di denaro che serve per recuperare il potere di acquisto, mentre il contratto di secondo livello dà un’altra qualità di denaro che serve per redistribuire la produttività là dove viene creata, in azienda. Se nei rinnovi dei contratti nazionali non si è rigorosi e si dà un’eccessiva quantità di denaro, si riduce la possibilità di redistribuire il denaro al secondo livello dove si esprime meglio il legame tra salario e produttività».
Al secondo livello, le intese raggiunte negli ultimi mesi, mostrano però che l’approccio, uguale per tutti e buonista, all’insegna della pace sociale, è stato via via scalzato da uno nuovo che invece prevede o pretende i risultati tangibili, il riconoscimento della professionalità e del valore aggiunto. L’esempio estremo è senza dubbio quello di Tim dove è stato costruito per 52mila dipendenti un vero e proprio Mbo, un management by obiectives, con uno schema che ricalca in tutto e per tutto quello utilizzato per i manager.
Roberto Benaglia, responsabile dell’osservatorio sulla contrattazione di secondo livello Ocsel della Cisl, spiega che «imprese e lavoro stanno cercando di scommettere e di fare una contrattazione che guardi in avanti, verso i nuovi obiettivi. Salario e welfare sono i due temi rilanciati al secondo livello (si veda infografica)». Questo in parte si lega all’incentivo fiscale, ma in parte si lega anche «al tema della competitività. Le parti hanno una consapevolezza forte del fatto che la nuova contrattazione è chiamata a rafforzare la competitività delle imprese e a valorizzare il fattore lavoro», continua Benaglia. Quando si parla della parte salariale del premio di risultato «oggi è diventata maggioritaria la quota delle imprese dove predomina la contrattazione variabile, legata ai risultati, mentre solo una minoranza continua a negoziare cifre fisse», dice Benaglia che ha alle spalle una lunga esperienza come segretario generale della Cisl Lombardia.
Il rapporto tra contrattazione nazionale e aziendale è un rapporto basico e tanto più si restringe l’una quanto più si ampliano le risorse per l’altra, il cui compito è la redistribuzione della ricchezza laddove viene prodotta, e cioè in azienda. Il 2016 (e l’inizio del 2017) si è lasciato alle spalle la gran parte dei rinnovi dei contratti collettivi del manifatturiero e questo ha consentito alle parti di concentrarsi sui negoziati in azienda. In queste settimane abbiamo iniziato un viaggio che partendo dai numeri vuole però avere un approccio qualitativo. Siamo andati a vedere, anche sulla scorta della cronaca che abbiamo raccontato, che cosa c’è dentro i contratti per scoprire che al secondo livello affiorano sempre più chiaramente indicatori di efficienza, produttività, qualità e innovazione facilmente identificabili, misurabili e verificabili, grazie anche a un approccio più partecipativo che si sta a poco a poco affermando nelle relazioni industriali. Come dice Franco Martini segretario nazionale della Cgil partendo da un paio di considerazioni generali bisogna sempre ricordare che «quando si parla di contrattazione di secondo livello innanzitutto non dobbiamo dimenticare che rispetto alla platea complessiva ci riferiamo al 20% delle imprese».
Non si può non rimarcare, a questo punto, il ruolo del legislatore e del decreto interministeriale che attua la norma contenuta nella legge di Stabilità 2016 che prevede una tassazione agevolata con imposta sostitutiva del 10% per i premi di risultato (con limiti per il premio e per il reddito), e per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa e prevede inoltre la detassazione per la parte del bonus fruita in welfare da parte del lavoratore. Tutto questo però a fronte di risultati oggettivi. Tiziana Bocchi, segretario confederale della Uil che in settembre avvierà Digit@uil, un archivio digitale interattivo sui contratti di secondo livello, racconta che «dal primo censimento negli accordi c’è una notevole diffusione del salario di produttività variamente denominato e legato agli indicatori individuati dalle parti che possono essere di sito produttivo e di gruppo. Su questo orientamento ha positivamente influito la legge di bilancio 2017 che ha recepito il decreto ministeriale sulla detassazione dei premi di produttività». Martini fa però notare che «la detassazione dei premi era stata pensata anche per produrre un incremento della produttività media del sistema ma su questo occorre fare un bilancio. Va notato che esiste un gap nei premi di produttività con i paesi concorrenti. Viene allora da chiedersi in che misura gli incentivi fiscali hanno contribuito ad aumentare i premi o in che misura è corrisposto un aumento della produttività o se non siano stati adottati come una riduzione impropria del costo del lavoro. Non dimentichiamo che ci troviamo di fronte a una legge finanziaria che ha destinato risorse pubbliche per detassare i premi di produttività. La sfida della produttività a mio avviso è legata a ben altri interventi. Senza politiche strutturali sull’innovazione e le infrastrutture è difficile allargare la contrattazione di secondo livello».
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