Colpite con intensità diversa dalla crisi economica, le regioni hanno visto aumentare negli ultimi anni i divari di crescita anche in base alla presenza (o meno) di aree con una spiccata vitalità industriale: imprese e settori di attività che hanno saputo agganciare prima e meglio il miglioramento della congiuntura. È quanto rivela l’ultima pubblicazione sulle “Economie delle Regioni” realizzato dalla Banca d’Italia e in uscita oggi.
L’analisi offerta, basata sui dati fino al 2015, individua 369 aree incrociando province e settori di attività dove le performance in termini di fatturato, valore aggiunto produttività del lavoro e risultato di esercizio delle imprese si sono mostrate positive nell’ultimo triennio. Il risultato è che il 65% di queste aree manifatturiere vitali sono concentrare nel Nord e uniformemente distribuite, mentre scendendo al Sud l’immagine diventa più rarefatta, a macchia di leopardo, e queste isole di vitalità industriale diventano del tutto assenti in ben quattro regioni: Molise Calabria, Sicilia e Sardegna (si veda l’approfondimento in pagina).
Guardando ai comparti, nel Mezzogiorno le realtà produttive più dinamiche sono relegate all’alimentare mentre nel centro e ancor più nelle regioni settentrionali i migliori livelli di performance sono diffusi nei settori tecnologici intermedi: le produzioni chimiche, le apparecchiature elettriche e i trasporti, le lavorazioni dei metalli e la raffinazione. È dall’analisi della capacità produttive di queste aree che si possono comprendere i divari cresciuti negli anni di una crisi che ha tagliato del 11,9% il Pil del Sud tra il 2007 e il 2015, contro il -6,7 del Centro Nord e il 5,7 o 5,9% del Nord-Ovest e del Nord-Est. Un distacco che, nel 2016, si rifletteva ancora in pieno nel fatto che il prodotto per abitante del Mezzogiorno è stato pari a circa il 56% di quello del resto del Paese. Le cause?
Secondo le analisi di Bankitalia il divario è attribuibile in parti pressoché uguali «alla diversa quota di popolazione occupata e alla produttività, che nelle regioni meridionali è più bassa di oltre il 20% rispetto al resto del Paese». Pesano i diversi contesti territoriali e le diverse dinamiche di produttività totale dei fattori. Nel Centro Nord l’utilizzo di forza lavoro qualificata da parte delle imprese è maggiore così come lo è la capacità dei centri urbani di attrarre soggetti con più elevata scolarità.
E diverse sono state negli ultimi anni anche i tempi di rientro nel mercato del lavoro di chi aveva perso l’impiego. Nelle medie nazionali tra il 2008 e il 2013 meno del 29% dei disoccupati è riuscito ritrovare un nuovo impiego entro sei mesi e solo dal 2014 la quota ha ripreso a crescere, accelerando in modo significativo nel 2015. Nel Mezzogiorno invece solo il 26,5% di chi aveva perso un impiego nella media del quadriennio 2009-2012 ha trovato un nuovo lavoro dipendente entro sei mesi (a fronte di circa il 28 nel Nord e il 29 al Centro). Naturalmente a tempi di reimpiego più lunghi corrispondono salari inferiori: i lavoratori che provengono da periodi di inoccupazione più lunghi percepiscono retribuzioni meno elevate rispetto a chi è rimasto inoccupato per meno tempo. E il fenomeno, pur presente in tutte le aree, è più marcato al Centro e nel Mezzogiorno.
La pubblicazione di Bankitalia offre una serie di approfondimenti tematici sui comparti del turismo (con un confronto sulla diffusione dell’offerta di locazione tramite AirBnb tra Veneto e Toscana) delle costruzioni, dei trasporti, nonché sul ruolo delle città come luoghi della crescita.
Venendo all’oggi e alla migliorata congiuntura, i dati relativi ai primi due trimestri del 2017 segnalano un consolidamento della crescita in tutte le macroaree, più marcata nelle regioni centrosettentrionali .E il clima di fiducia delle imprese e sulle condizioni d’investimento, si legge nella sintesi generale, «lasciano prefigurare un irrobustimento dell’attività di accumulazione nell’industria nel 2017, in modo diffuso sul territorio».
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