
Il sogno è finito. Di startup come quelle nate negli ultimi decenni, capaci di passare in poco tempo da 20 milioni di fatturato a 300-400 milioni, all’orizzonte non ce ne sono più. Qui a Montebelluna l’età dell’oro è il passato, spazzato via insieme al sogno di Veneto Banca. «I segnali risalgono ad anni fa, ma quando c’è stata la crisi è crollato tutto velocemente. Ora la ripresa è concreta e stabile, ma di nuove Geox penso che non ne vedremo più per un po’» spiega Diego Bolzonello, a lungo braccio destro di Mario Moretti Polegato.
Per anni, dal ’70 in poi, il distretto è stata la culla del made in Italy tecnico e di qualità: attrezzatura sportiva legata in una prima fase agli sport invernali, poi all’outdoor in generale, al ciclismo e al motociclismo. Oggi Montebelluna e i Comuni circostanti mantengono l’eccellenza e il know how, pur subendo la pressione dei grandi brand globali dello sport. Ma è come se trattenesse il fiato, manca il ricambio alle spalle. Le nuove specializzazioni (meccanica e arredo, che si affiancano alla tradizionale produzione del Prosecco) faticano a fare da traino e il terremoto del credito «di prossimità» non sta di certo aiutando.
Le imprese meglio attrezzate hanno subito il colpo, si sono rialzate e ora con la ripresa stanno comunque tornando a correre, soprattutto all’estero: nel primo semestre l’export di Treviso è cresciuto del 6,3%, a 6,3 miliardi, mentre la produzione fa +4,5% anno su anno.
Chi ha subito veramente il colpo sono le piccole imprese e le famiglie, colpite dalla scure sui bond subordinati e oggi orfane insieme ai risparmiatori di una banca di riferimento che è stata per anni la cassaforte del territorio. «L’impatto è stato devastante - riconosce Alberto Zanatta, alla guida di Tecnica, azienda nota per marchi come Moon Boot, Nordica, Blizzard, Rollerblade, in procinto di cedere il 40% del capitale a Italmobiliare -. Quando la bomba è stata sganciata ha fatto terra bruciata e lasciato un segno indelebile, soprattutto tra i privati».
L’ex Banca popolare di Asolo e Montebelluna era l’istituto di cui tutti si fidavano, il risparmio sicuro. «Gli imprenditori in molti casi hanno potuto diversificare - prosegue Zanatta -, ma i risparmiatori no. Nella banca avevano i risparmi di una vita, in azioni avevano investito l’intero tfr». Le stesse persone che per indole stavano alla larga dalla Borsa non esitavano a investire in Veneto Banca, giudicandoli due tipo di rischio diverso. Oggi c’è chi non ha più risparmi, e se ne rende conto quando deve pagarsi il dentista o magari comprare la casa al figlio. Non essere in grado di dare un tetto ai figli che mettono su famiglia: inconcepibile fino a pochi anni fa in un contesto come questo, in cui la trasmissione di ricchezza tra generazioni è l’ingranaggio alla base di tutto.
Per questo motivo la gente parla poco volentieri di quello che è successo con Veneto Banca. Si vuole dimenticare e guardare avanti. «Tipico di noi veneti - dice Zanatta -: ci si tira su le maniche e si volta pagina». Per le imprese, come detto, è stato diverso. Imprenditori come Zanatta confermano che la banca è stata fondamentale nell’alimentare la spinta di questo territorio, che cresceva a doppia cifra ogni anno, sia nel pil che nelle esportazioni. «Veneto Banca è stato un istituto di supporto - spiega l’imprenditore -, una colonna dorsale di tutto il tessuto imprenditoriale del nord est. Metteva a disposizione risorse e investimenti». Poi quando nel 2008 ci sono stati i primi segnali di credit crunch, il meccanismo si è inceppato.
Ora quell’epoca, la cui storia è custodita nella splendida sede del Museo dello Scarpone, villa Zuccareda Binetti, è alle spalle. «Ma è tutto il mondo a essere cambiato, non solo il Nord est - dice Zanatta -. La competizione è passata a una categoria più elevata, lo spazio per le intuizioni è sempre più ristretto».
Secondo il commissario liquidatore Fabrizio Viola, l’80-85% dell’attivo dell’attuale Veneto Banca è costituito da crediti deteriorati. Una massa che alla data del 31 dicembre dell’anno scorso ammontava a 18,8 miliardi lordi (di cui 9,6 miliardi di sofferenze, 8,3 miliardi di inadempienze probabili e 238 milioni di scaduti).
Ma Montebelluna non ci sta a passare per un territorio «infetto». «Se punto il compasso a dieci chilometri dal mio studio - spiega Roberto Palumbo, commercialista e titolare di un noto studio in centro città - trovo solo grandi nomi della calzatura e dell’attrezzatura sportiva, un’imprenditoria ancora giovane, persone eccezionali: non sono state le sofferenze delle imprese, peraltro concentrate tra pochi soggetti, ad avere seppellito la banca. Qui da noi si dice che “no ghe xe mucio che non se desmucia”, vale a dire che non c’è una montagna di denaro così grande che non possa finire, che tu volendo non possa distruggere: è stata la mala gestio a distruggere il patrimonio della banca». Palumbo non intende imputare tutte le responsabilità a Vincenzo Consoli, dominus dell’istituto negli ultimi anni. «Ha commesso errori, ma aveva capacità - spiega -. Una grande colpa è delle persone di cui era circondato e dell’atteggiamento di accondiscendenza nei confronti delle pressioni dell’ambiente. È facile, in questo momento, identificare in una sola persona il capro espiatorio di ogni responsabilità. La verità è che in tanti, dentro e fuori la banca, sapevano, e sanno come la banca veniva gestita e nessuno, realmente, ha mai denunciato la situazione» .
Oggi lo spazio lasciato vuoto da Veneto Banca è stato colmato da altri, e Banca Intesa ha rilevato la rete dell’ex popolare di Montebelluna e di Asolo e della Popolare di Vicenza. «Abbiamo cercato di ripristinare tranquillità e solidità - spiega nel suo ufficio di Vicenza Gabriele Piccini, responsabile in Intesa Sanpaolo delle ex banche Venete -. In questi mesi la raccolta ha ricominciato a crescere in maniera significativa, stanno tornando molti clienti che avevano dirottato i risparmi altrove». Piccini, che si è insediato a gennaio, segnala che le imprese «chiedono, come è normale, finanziamenti legati al circolante», necessari visto che «per tutta la prima parte dell’anno il credito era stato frenato dalle difficoltà dei due istituti sul piano della liquidità. Stiamo accompagnando inoltre le necessità di investire in innovazione», sostenuta in parte da un plafond da 5 miliardi per nuovo credito sul territorio.
In molti segnalano però difficoltà nell’accesso al credito e chiedono maggiore fiducia. Si tratta soprattutto delle realtà più piccole. «Le aziende gestite in maniera famigliare faticano a crescere - spiega ancora Diego Bolzonello -, si impiantano sui limiti del controllo non manageriale, e oggi molte fra queste sono sbilanciate tra mezzi propri e capitale di terzi. Le banche comprensibilmente sono caute. Le aziende sane, a loro volta, sono più prudenti a chiedere finanza. Per uscire dall’impasse serve una svolta, una gestione del credito agganciata a standard precisi, ai piani industriali».
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