Economia

Il futuro della siderurgia è nella ricerca applicata

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L'Analisi|l’analisi

Il futuro della siderurgia è nella ricerca applicata

Il muro contro muro è durato una settimana scarsa. Adesso il tavolo Ilva, a meno di sorprese dell’ultima ora, può ripartire. Grazie alle aperture del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e alla visita-blitz nella città del ministro Calenda, martedì scorso. Tra le richieste avanzate dal sindaco per il ritiro del ricorso contro il decreto Ilva, quella messa in coda al documento è senza dubbio la più intrigante: la creazione a Taranto di un centro di ricerca sulla nuova siderurgia e sulla decarbonizzazione. Una misura prevista dal preaccordo Governo-Arcelor-Mittal, ma finora rimasta in secondo piano.

Non ce ne voglia il sindaco, le altre richieste - dal generico miglioramento del decreto, alla previsione del rischio sanitario, al controllo del cronoprogramma sulla copertura dei parchi minerali - sanno di scontato e di dovere d’ufficio e sono già largamente previste da un decreto redatto con i fari dell’opinione pubblica e della magistratura puntati addosso.

La creazione a Taranto di un centro di ricerca sull’acciaio e la decarbonizzazione è, invece, una proposta lungimirante, che può sparigliare il tavolo di una trattativa tra Governo, impresa, parti sociali ed enti locali che rischia di ingarbugliarsi a ogni incontro. Perché ha ragione il ministro Calenda quando dice che la decarbonizzazione e l’uso esclusivo del gas per un impianto delle dimensioni dell’Ilva di Taranto «è una favola» e farne una bandiera nella trattativa, come hanno fatto gli enti locali finora, è irragionaevole. Le attuali tecnologie non consentono neanche a Paesi eccedentari di gas naturale, l’Arabia Saudita e la Russia, per esempio, di costruire impianti carbon free. La produzione globale di preridotto è di circa 60 milioni di tonnellate, circa dieci volte la produzione attuale dell’Ilva e sei volte la potenzialità dell’impianto di Taranto a pieno regime. Viene fatta perlopiù in Asia e in impianti di piccole dimensioni, con una produzione di due milioni di tonnellate al massimo. Dunque, pensare che un colosso come l’Ilva di Taranto possa essere riconvertito in breve tempo è utopistico. L’utilizzo del gas, al contrario, può diventare un’alternativa credibile se visto in un’ottica di medio-lungo periodo. Perché ciò avvenga la tecnologia deve essere migliorata al punto da poter utilizzare con profitto il preridotto anche in stabilimenti delle dimensioni dell’Ilva e in Paesi forti importatori di gas come l’Italia. Serve molto tempo, molta competenza e molta ricerca teorica e applicata.

Taranto può diventare la candidata naturale a guidare il processo per due motivi. Il primo: se la compravendita dell’Ilva ad Arcelor-Mittal sarà conclusa e la nuova acciaieria andrà a regime, l’impianto siderurgico più grande d’Europa sarà controllato dal gruppo leader mondiale del settore. Si potrebbero innescare le migliori sinergie produttive e finanziarie per completare un percorso di innovazione e sviluppo ancora in embrione. Il secondo motivo è noto a pochi perché nella foga demolitoria dell’Ilva sono finiti nel tritacarne anche le competenze e i punti di forza di Taranto. Come sanno gli addetti ai lavori, la scuola siderurgica tarantina di ingegneri e tecnici è leader globale. Molti stabilimenti in tutto il mondo sono guidati da dirigenti e tecnici ex Ilva che hanno anche progettato e messo a regime l’avvio siderurgico dei Paesi che solo di recente si sono affacciati alla produzione, dal Giappone all’India alla Corea.

Un investimento consistente, non pro-forma, magari pubblico-privato, in un centro di ricerca applicata sarebbe anche un modo per restituire a Taranto quanto gli abusi della peggiore Ilva le hanno tolto negli anni bui e per valorizzare le competenze e le risorse di uno stabilimento ancora leader in Europa. Una somma a saldo attivo per Arcelor-Mittal e i lavoratori, i cittadini di Taranto e il Governo. E anche un modo per portare su un livello di sviluppo e crescita una trattativa fondamentale per la siderurgia e l’industria del Paese.

Per fare tutto ciò serve però un salto culturale. L’approccio al tavolo non può essere ancora conservativo o difensivo. Le parti dovrebbero avere la forza di scommettere sul rilancio della siderurgia a Taranto in un’ottica di ricerca e innovazione. Le istituzioni locali e la cittadinanza dovrebbero spingere perché la fabbrica e la ricerca tornino una risorsa per la città. Chi vuole l’Ilva chiusa dovrebbe essere convinto che sarebbe un grave errore. Arcelor-Mittal, con un impegno convinto, spazzerebbe definitivamente i dubbi degli operatori - non sono pochi - che pensano sia arrivata a Taranto per ridimensionare l’Ilva a vantaggio degli stabilimenti francesi. Se il centro di ricerca di Taranto assomigliasse, come caratteristiche e investimento, allo Humane Techonpole che sta per nascere nell’area dell’Expo a Milano sarebbe un buon inizio per tutti. Non è l’utopia della decarbonizzazione dietro l’angolo ma un percorso concreto e credibile per arrivarci.

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