Prima di mettersi a progettare e realizzare artigianalmente lampade elegantissime, ispirate ai lavori del designer nippo-americano Isamu Noguchi, Baku Sakashita ha lavorato per sei anni come medico a Tokyo, la sua città di origine. Poi ha deciso di cambiare vita e seguire la sua passione di sempre: dare forma agli oggetti. Ha studiato design in Giappone e poi, per un anno, a Losanna, e in questi giorni, a 33 anni, è arrivato al Salone Satellite di Milano – lo spazio della fiera dedicato ai designer under 35 – con la sua prima collezione, Suki Lighting Collection. Baku è già in contatto con un’azienda giapponese, che collaborerà a produrre e commercializzare, questi prototipi, ma al Salone spera di incontrare un imprenditore interessato a produrre i suoi tanti progetti.
Non è un sogno impossibile: da 21 anni il Salone Satellite – che quest’anno ospita i lavori di 650 giovani under 35, tra designer e studenti di scuole internazionali di design – ha proprio questa funzione: mettere in contatto i giovani talenti di tutto il mondo con le imprese produttrici o i buyer internazionali. In tanti sono riusciti, tra gli oltre 10mila giovani che sono passati per questa vetrina, ricorda Marva Griffin, ideatrice nel 1998 e ancora oggi anima del Satellite. Matali Crasset, Nendo o Xavier Lust, solo per citare alcuni dei comi più noti, che ora espongono al Salone “dei grandi” o nel Fuorisalone, firmando collezioni per i brand più blasonati. Come Francesca Lanzavecchia, 34 anni, presente in fiera quest’anno con prodotti per Living Divani e Fiam Italia, che nel Satellite ha trovato, nel 2001 e 2012 un ottimo trampolino di lancio per il suo studio Lanzavecchia+Wu, che oggi si divide tra Italia e Singapore e ha realizzato progetti per Cappellini, Gallotti&Radice, ha curato l’allestimento di una mostra in Triannale e realizzato vetrine per Hermès.
«Qui, dentro la fiera, questi ragazzi hanno davvero l’opportunità di essere visti e scelti dalle imprese italiane ed estere – spiega Griffin –. Prima che inventassimo il Satellite, che all’epoca non aveva esperienze simili da nessuna parte, i giovani non avevano una vetrina ufficiale. Chi poteva permetterselo, affittava uno spazio in città, ma non otteneva quello che voleva, perché gli imprenditori e i buyer, impegnati in fiera, difficilmente la sera visitavano il Fuorisalone». La creatività non ha cittadinanza, spiega Marva Griffin: «I talenti arrivano da tutto il mondo: quest’anno abbiamo giovani da 40 Paesi: dall’Europa al Canada, dall’Australia alla Cina. I giapponesi sono i più numerosi, ma ci sono anche tanti italiani e tedeschi».
Concorda Giulio Cappellini, imprenditore che da oltre trent’anni gira il mondo a caccia di nuovi talenti (a lui si deve la scoperta di star come Jasper Morrison, Marcel Wanders, Tom Dixon, i fratelli Bouroullec): «Quelli bravi sono dappertutto». Nel tempo, osserva Cappellini, è cambiato l’atteggiamento dei giovani: Negli anni 80 fare design era un segno. Poi era compito delle aziende far diventare questo segno un prodotto. Oggi vedo nel mondo e anche in Italia una nuovissima generazione di designer che ha un approccio molto consapevole: capiscono che fare design è una cosa seria, che dietro la design week c’è il lavoro di tutto l’anno dell’industria». Merito forse anche di tante scuole e università che in questi anni si sono diffuse, fornendo ai giovani gli strumenti necessari. «Sanno che non basta disegnare un oggetto – conclude Cappellini –: bisogna gestire tutto il processo, dall’idea iniziale al prodotto finito, alla sua comunicazione.
Zsuzsanna Horvath, 33 anni, lo ha ben chiaro: ungherese d’origine ma danese di adozione . ha studiato in Finlandia e lavorato per anni come architetto. Da tempo sta lavorando a una bellisima collezione di lampade con cui si è presentata al satellite quest’anno. Ma non è soddisfatta: «Ho già ricevuto molte richieste per questi prodotti – spiega – ma ho continuato a lavorare su alcuni dettagli che non mi convincevano: oggi credo che finalmente la colelzione sia pronta per il mercato».
Anche Edmond Wong, 32enne di Hong Kong, è piuttosto determinato: «Ho partecipato al satellite lo scorso anno, con il sogno che qualche azienda importante mi vedesse e mi chiedesse di collaborare. Ma non funziona così», ammette. Perciò si è messo in partnership con Eric Tong e insieme hanno fondato lo studio But Yet, con cui quest’anno presentano al Salone la collezione Me&Meow, una serie di mobili polifunzionali, pensati per chi vive con i gatti. «Ho capito che è più facile avere un proprio brand e cercare dei partner su progetti specifici – spiega Edmond –. Vogliamo fare qualcosa di diverso, innovare davvero, con le tecnologie, e non solo fare sperimentazione sulle forme e i materiali, come mi sembra facciano in molti anche qui al Salone del Mobile».
Proprio sui materiali e sulla loro sostenibilità ambientale si concentra invece il lavoro del collettivo Rehome, un gruppo di dieci ex studenti finlandesi, tutti tra i 23 e i 28 anni, usciti dall’Istituto di design dell’Università di Lathi. Al Satellite partecipano con un progetto di soluzioni abitative temporanee, studiate per situazioni di emergenza come terremoti o alluvioni. «Facciamo tutto in cartone e legno compensato – spiega Iida Nordgren –: abbiamo pensato alle prime necessità delle persone: un tavolo, i letti, dei contenitori e un divisorio per la privacy». Tutto, precisa Iida, in materiali rigorosamente riciclati.
Per il trio Market, dalla Croazia, il must invece è la «promozione di una genuina estetica slava. Slava e femminile», precisa Marita, 26 anni. Lo studio è stato fondato quest’anno e le tre giovani sono al lavoro su diversi progetti per l’arredo, ma già da tempo sono attive nel settore del graphig design, delle scenografie per teatri e del marketing. Concretezza dunque, prima di tutto.
Come quella di Mauro Baronchelli, 35enne di Como, che lavora come interior designer in un negozio-studio che gli dà la serenità economica per coltivare la sua passione: i mobili. Mauro “nasce” come restauratore e antiquario, e la sua passione per il design anni 50 si riflette nei tre pezzi presentati al Salone. «Sono stato qui anche lo scorso anno e ho ricevuto una proposta da un’azienda di Pechino – racconta –. Quest’anno invece un buyer americano si è fatto avanti per usare una sua seduta all’interno di una catena retail». Per i giovani designer, insomma, il futuro guarda lontano.
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